Uno dei temi su cui dovrebbe essere più netta la discontinuità segnata dall’avvicendamento alla Casa Bianca riguarda le politiche energetiche e ambientali. La presidenza Trump si è contraddistinta negativamente rispetto a un orientamento globale che vede gradualmente emergere nell’opinione pubblica e nelle politiche dei governi l’esigenza di affrontare il cambiamento climatico e adottare interventi importanti di promozione della crescita sostenibile.
Si pensi che l’amministrazione americana uscente, anche tramite le agenzie governative, ha assunto 164 provvedimenti per allentare le misure contro il riscaldamento climatico, considerate eccessivamente onerose per l’industria dei combustibili fossili. A riportarle è il Climate Deregulation Tracker attivato dal Sabin Center fo Climate Change Law presso la Columbia Law School. Ritroviamo, ad esempio, l’abrogazione degli standard di prestazione per le emissioni di metano per gli impianti di produzione, lavorazione, trasmissione e stoccaggio di petrolio e gas naturale, l’allentamento del rilevamento delle perdite e dei programmi di manutenzione per gli idrofluorocarburi – che sono potenti gas serra-, la cancellazione del “Clean Power Plan” voluto dall’amministrazione Obama per abbattere le emissioni di CO2 da parte delle centrali elettriche a carbone. E ancora la proposta di limitare o eliminare le analisi sul cambiamento climatico per i progetti riguardanti i combustibili fossili, l’ampliamento della possibilità per l’industria manifatturiera di derogare ai requisiti di efficienza energetica dei prodotti, il congelamento al 2025 di limiti emissivi per i veicoli più stringenti, la destinazione di milioni di acri di terra, anche in aree naturalistiche, a usi estrattivi, e tante altre ancora.
Più di tutte, è da ricordare la scelta simbolo dell’amministrazione Trump in materia ambientale: ritirare gli Stati Uniti dall’Accordi di Parigi sul clima. Una decisione entrata in vigore pochi giorni fa e che azzoppava un’intesa per cui è imprescindibile l’impegno innanzitutto dei maggiori Paesi al mondo (gli USA sono il secondo inquinatore dopo la Cina) per apparire credibile agli occhi del consesso internazionale e poter conseguire gli obiettivi prefissati di contrasto all’emergenza climatica.
Il mandato presidenziale di Joe Biden dovrebbe, invece, caratterizzarsi per una sensibilità opposta, seppure nelle diverse sfumature di posizioni che segnano le varie anime del Partito democratico. Il neoeletto presidente ha dichiarato che gli Stati Uniti, subito dopo il suo insediamento, rientreranno nell’Accordo di Parigi. Avvierà, inoltre, un piano da 2.000 miliardi di dollari per sostenere le fonti pulite di energia e la transizione ecologica. L’obiettivo è conseguire la neutralità climatica entro il 2050, come già stabilito dall’Unione europea con la sua European Climate Law, e dieci anni prima della Cina, con una riduzione di emissioni equivalente a 75 Gt di diossido di carbonio. Stati Uniti e Cina insieme contribuirebbero per il 40% allo sforzo di contenimento della crescita della temperatura globale come previsto dall’Accordo sul Clima.
È comprensibile, inoltre, che Biden vorrà quantomeno reintrodurre la normativa ambientale rimossa dalla deregulation trumpiana, in particolare riguardo ai limiti emissivi per le centrali elettriche e gli autoveicoli. La nuova amministrazione, però, dovrà vedersela con una maggioranza risicata al Congresso. Nello specifico, il Senato rischia di rimanere in mano repubblicana (saranno decisivi i ballottaggi del 5 gennaio per l’assegnazione di due seggi della Georgia). In questo caso, sarà complicato far passare provvedimenti particolarmente radicali.