Covid-19, i ragazzi italiani cercano di tornare sui banchi di scuola


Articolo
Eleonora Mazzoni
ragazzi

Negli ultimi dieci giorni abbiamo assistito a una nuova fase di decrescita dei casi di contagio da Covid-19. Un calo che tuttavia dovrà essere confermato nelle prossime settimane per poter essere interpretato come il frutto delle misure di contenimento applicate durante il periodo natalizio e di quelle attualmente in vigore che vedono gran parte delle regioni italiane colorate di rosso e arancione. Il dato deve essere monitorato e letto con cautela, anche perché molto probabilmente sarà influenzato dal tanto discusso rientro a scuola dei ragazzi delle superiori.

Il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 14 gennaio ha previsto la possibilità per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado di tornare in aula nella misura del 50% e fino al 75% nelle regioni dichiarate zona gialla e arancione dall’ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza. La decisione, in un periodo decisivo per la capacità di contenere la curva dei contagi e con un numero ancora molto elevato di decessi, ha sollevato molti dubbi. In questi mesi è risultato ormai chiaro come, oltre alla sicurezza degli edifici scolastici, sia fondamentale quella nella mobilità e nell’aggregazione indiretta, indotta dalla riapertura degli istituti. E così il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha convocato urgentemente il Comitato tecnico scientifico la mattina del 17 gennaio per discutere della riapertura delle scuole. L’indicazione del Comitato ha confermato la possibilità (anche per le scuole superiori) di riprendere la didattica in presenza nelle zone gialle e arancioni – al 50% e fino al 75% – come previsto dal decreto.

Eventuali diverse decisioni prese dai presidenti di regione, rientrerebbero dunque nella loro univoca responsabilità, riconoscendo quindi di fatto la possibilità di intervenire attraverso ordinanze regionali. Tar permettendo. Il Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia-Romagna, ad esempio, ha sospeso l’efficacia dell’ordinanza dell’8 gennaio 2021 con cui il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, aveva disposto la didattica a distanza al 100% per le scuole superiori fino al 23 gennaio. Il ricorso era stato presentato da 21 genitori ed è stato accolto. Così da lunedì 18 gennaio le scuole superiori dell’Emilia-Romagna hanno ripreso le lezioni in presenza al 50%. Il Tar ha sospeso anche l’efficacia dell’ordinanza del governatore del Friuli-Venezia Giulia in base alla quale l’attività didattica delle scuole secondarie di secondo grado si sarebbe dovuta svolgere a distanza fino alla fine del mese. Il governatore ha comunque annunciato che le scuole non avrebbero riaperto tramite un’altra ordinanza che ribadisce quanto già determinato in quella di inizio gennaio.

La Conferenza delle regioni che si è riunita la sera del 18 gennaio ha quindi chiesto all’unanimità un confronto con il ministro Speranza per affrontare il tema del riavvio della didattica in presenza nelle scuole in questa fase di emergenza. In particolare, occorrerà superare alcune incongruenze fra le dichiarazioni del Cts, le decisioni dei Tar e alcune posizioni espresse in passato.

Ad oggi la scuola sta provando a riportare in classe circa 650.000 studenti nelle regioni fuori dalla zona rossa, ma attualmente questo è vero solo in Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Abruzzo, Molise e Puglia. A partire dalla prossima settimana, e dalla fine di gennaio, dovrebbero aggiungersi anche Sardegna, Calabria, Basilicata, Campania, Umbria, Marche, Veneto e Liguria, dove invece la didattica a distanza al 100% per le superiori è stata prorogata.

A questo, si aggiungono le proteste dei ragazzi che in molte città si oppongono a una gestione della scuola caratterizzata da continue chiusure e riaperture, incertezze e disuguaglianze. Sono molti gli studenti che stanno manifestando e dichiarando la loro volontà di rientrare in classe, purché ci siano le condizioni per farlo in sicurezza.

Quello che sino ad oggi sappiamo sull’incidenza delle scuole nell’andamento dell’epidemia è purtroppo poco: i dati ufficiali sono solo quelli contenuti in un comunicato pubblicato dal ministero dell’Istruzione il 15 ottobre 2021. Secondo questi ultimi, al 10 ottobre, risultavano positivi 5.793 studenti, 1.020 insegnanti e 283 soggetti appartenenti al personale non docente. La grande assente, tra le altre, è una distinzione tra i dati relativi ai diversi gradi della scuola, che sarebbe invece fondamentale per poter stimare l’effetto indiretto della riapertura delle scuole in altri contesti. Si pensi, ad esempio, al nodo del trasporto pubblico, utilizzato in percentuale elevata e maggiore dai liceali, e che invece quasi non tocca i bambini che frequentano le scuole elementari.

Un tentativo interessante di misurare l’impatto della frequenza scolastica sulla dinamica dei casi di Covid-19 confronta la curva dei contagi nelle regioni che hanno riaperto le scuole il 14 settembre con quelle che hanno deciso di posticipare l’apertura al 24. L’analisi dimostra un aumento dei casi più marcato nel primo gruppo di regioni rispetto al secondo, con un ritardo temporale di circa 25 giorni dovuto a fattori diversi, tra cui il tempo di incubazione della malattia e quello necessario a rilevare la positività.

La necessità di far tornare i ragazzi nelle scuole, e perché no anche nelle università, è una certezza. Ma a quasi un anno dallo scoppio dell’epidemia siamo lontani dall’avere un quadro chiaro della catena dei contagi che scaturisce da questa decisione. Per non parlare del fatto che la preparazione delle regioni presenta molte differenze negli investimenti che sono stati fatti per le attività di tracciamento ad hoc, per il potenziamento e il controllo del trasporto pubblico, in alcuni casi per l’agibilità e la sicurezza degli edifici scolastici. Ancora una volta rischiamo di creare differenze nelle differenze collegate all’istruzione, ma che coinvolgono il diritto alla salute.

La più grande domanda a cui si sarebbe dovuto rispondere molti mesi fa è: come possiamo evitare che differenze semplici, come la possibilità di muoversi con un proprio mezzo rispetto alla necessità di usufruire del trasporto pubblico, possano andare ad aggravare quelle già esistenti nelle opportunità di accesso all’istruzione? Il Covid-19, lo ripetiamo da quasi un anno, è stata la miccia che ha fatto esplodere sotto agli occhi di tutti le carenze e le criticità già esistenti nell’organizzazione della sanità italiana. Troppo poco, però, abbiamo parlato di come questo abbia evidenziato le disuguaglianze socioeconomiche nell’accesso all’istruzione. La sensazione è che si stiano replicando gli stessi meccanismi che all’inizio della seconda fase dell’epidemia hanno portato le regioni a rispondere in modo così diverso alle esigenze di salute degli italiani. La stessa bagarre amministrativa che scaturisce dall’ormai quotidiana contrapposizione tra potere centrale e territoriale. Troppo tardi ci accorgeremo che il futuro dei nostri ragazzi potrà essere seriamente compromesso da interventi poco coraggiosi, tardivi e a macchia di leopardo.

Direttore Area Innovazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Economia Politica presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, con una tesi sperimentale sulla scomposizione statistica del differenziale salariale tra cittadini stranieri ed italiani.

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