Dopo diversi anni di dibattito politico ed economico sul tema, la web tax sta per essere introdotta anche in Italia. Ufficialmente nota come Digital Service Tax (Dst), servirà a regolamentare la tassazione sui ricavi che le big tech attive nel web realizzano in Italia. In attesa di una soluzione globale condivisa (quantomeno tra i Paesi Ocse), la formula italiana riguarderà solo i colossi del web che vantano 750 milioni di fatturato globale e incassi online in Italia di 5,5 milioni. Questa soluzione, che sarebbe dovuta partire il 1° gennaio 2021, ha però incontrato le critiche e i dubbi di diversi attori nazionali e, soprattutto, della nuova amministrazione americana guidata da Joe Biden.
LA WEB TAX ITALIANA
Approvata nella legge di Bilancio 2020, la Digital Service Tax è costituita da un’aliquota del 3% sui ricavi applicata “alle aziende che realizzano in un anno solare, ovunque nel mondo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, ricavi complessivi non inferiori a 750 milioni di euro e percepiscono nello stesso periodo ricavi da servizi digitali non inferiore a euro 5,5 milioni di euro nel territorio dello Stato italiano”. Il provvedimento attuativo dell’Agenzia delle Entrate specifica che la nuova imposta riguarda solo la fornitura di servizi digitali ed elenca le numerose categorie che, invece, non saranno toccate dalla nuova disciplina. Tra queste, tutti i fornitori diretti di beni e servizi nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale, i siti web del fornitore del bene o del servizio come, ad esempio, i siti web aziendali, e i fornitori di servizi bancari e finanziari. Dalla tassa digitale sono inoltre esclusi alcuni servizi specifici, tra cui l’e-commerce e le piattaforme telematiche per lo scambio dell’energia elettrica, del gas, dei certificati ambientali e dei carburanti. Sono quindi esenti le piccole e medie imprese e, in generale, tutte le aziende che non presentano ricavi oligopolistici provenienti dal web. Inoltre, il ricavo sarà imponibile solo “se l’utente del servizio digitale è localizzato nel territorio nello Stato”, e quindi se “la pubblicità figura sul dispositivo dell’utente nel momento in cui il dispositivo è utilizzato nel territorio nello Stato, nell’anno solare, per accedere ad una interfaccia digitale”.
RINVIATO IL PRIMO VERSAMENTO
Sebbene di fatto riguardi solo pochi grandi colossi del web, le stime del Sole 24 Ore riportano che la tassa dovrebbe fruttare alle casse dello Stato 708 milioni di euro all’anno. Il primo versamento, previsto per febbraio 2021, è tuttavia stato posticipato dal governo con un decreto che prevede il rinvio del termine per i versamenti relativi al 2020 dal 16 febbraio al 16 marzo 2021 e il rinvio del termine per la presentazione della relativa dichiarazione dal 31 marzo 2021 al 30 aprile 2021.
I DUBBI SULLA TASSA E LE CRITICHE DA WASHINGTON
La nuova tassa digitale italiana ha sollevato diversi dubbi e critiche, la maggior parte dei quali provengono in particolare dagli Stati Uniti. Nei primi giorni di gennaio è stato pubblicato da Washington un rapporto dell’Ufficio del rappresentante per il commercio statunitense sull’imposta sui servizi digitali italiana. Il giudizio della nuova amministrazione Biden è durissimo e, nello specifico, l’imposta viene giudicata “irragionevole” e “discriminatoria” nei confronti delle aziende americane. Secondo l’analisi condotta dal governo Usa, l’imposta si applicherebbe a 43 imprese, di cui 27 statunitensi e solo 3 italiane (e rimanenti 13 di altri Paesi). La lunga lista dei settori esclusi viene intesa proprio con lo scopo di massimizzare l’applicazione alle imprese estere e, tra queste, quelle americane.
A questa critica si aggiunge la perplessità relativa al fatto che, diversamente dalle classiche imposte societarie, la tassa si applica ai ricavi e non ai profitti o alle vendite. Secondo il presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com), Stefano da Empoli, che ne ha scritto su Formiche.net, questo potrebbe portare a effetti gravemente distorsivi in quanto applicabile nello stesso modo a imprese con livelli di profittabilità molto diversi. Inoltre, si rischierebbe di rendere il mercato meno competitivo limitando l’ingresso o la crescita di aziende italiane. Ma non solo. Vengono rilevati forti rischi di doppia imposizione e, come riportato in un rapporto dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, si potrebbero facilmente innescare meccanismi di traslazione dell’imposta su consumatori e imprese italiane nonché porre questioni di privacy inerenti alla geolocalizzazione degli utenti.
IL LAVORO NEL QUADRO OCSE/G20
Gli intrecci geopolitici sui temi della tassa digitale si sono ulteriormente infittiti al World Economic Forum di Davos, dove è stata affrontata la questione del multilateralismo tra Unione europea, Cina e Usa. Oltre a ribadire l’importanza di possibili collaborazioni economiche con la Cina, nel corso del forum sia la cancelliera tedesca Angela Merkel, sia la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno sottolineano l’importanza della sfida digitale e il bisogno di intensificare la discussione con l’Ocse su una tassa sul digitale che risponda alla necessità di “contenere l’immenso potere delle Big Tech”. In sede Ocse/G20 si sta lavorando a un Quadro inclusivo che ha visto la partecipazione di 135 Paesi membri e che ha portato alle recenti proposte per lo sviluppo di una soluzione collettiva alle sfide fiscali della digitalizzazione dell’economia. Il quadro si basa su due pilastri, il primo dedicato all’allocazione dei profitti e il secondo a una forma di minimux tax globale.
Avendo da poco assunto la presidenza del G20, l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questa sfida.