Cybersecurity, ecco come la pandemia ha favorito gli hacker


Articolo
Domenico Salerno
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Nonostante la cybersecurity non sia una delle problematiche principali che ci vengono in mente pensando alla pandemia di Covid-19, la sicurezza informatica è uno degli ambiti che ha subito maggiormente l’impatto dello stato di crisi. Lo scenario emergenziale ha modificato profondamente le nostre abitudini e ci ha costretti a utilizzare come canale esclusivo per svolgere le nostre attività lavorative, sociali e ludiche quello digitale.

Secondo la Commissione europea, il 40% dei lavoratori del continente ha sperimentato forme di telelavoro dall’inizio della pandemia. In Italia, le politiche messe in atto dal governo per contrastare la diffusione del virus e i suoi effetti hanno portato a una forte crescita del lavoro agile nel settore privato. Secondo i dati della Banca d’Italia, la percentuale di lavoratori in smart working è aumentata dall’1,4% nel secondo trimestre del 2019 al 14,4 nello stesso periodo del 2020. Gli individui interessati da questa crescita sono passati da meno di 200.000 a 1,8 milioni. Insieme ai tanti vantaggi, questo modo di lavorare relativamente nuovo ha portato alla luce, però, anche nuovi problemi in termini di sicurezza e, nello specifico, di cybersecurity.

Utilizzare la rete come principale tramite lavorativo e commerciale offre quindi nuove opportunità per persone e aziende ma, allo stesso tempo, crea nuovi rischi. Le modalità di attacco utilizzate dai criminali informatici per penetrare i nostri devices diventano sempre più numerose. Il crescente numero di dispositivi smart, oltre a offrirci nuovi servizi, crea ogni giorno nuovi punti di vulnerabilità. Per questa ragione nel corso del Davos World Economic Forum del 2021 la cybersecurity è stata considerata uno dei maggiori problemi per l’economia globale.

La dimensione che il fenomeno ha assunto risulta evidente anche se osserviamo i dati relativi agli attacchi informatici che colpiscono i dispositivi elettronici che utilizziamo quotidianamente. Secondo uno studio condotto da Comparitech, nel terzo trimestre del 2019 il 9,68% dei computer e il 3,04% dei dispositivi mobili nell’Ue sono stati infettati da malware. Confrontando i dati europei con quelli delle altre principali economie mondiali, possiamo vedere come l’Unione sia al primo posto per percentuale di computer infetti, davanti a Cina, Giappone, USA, Corea del Sud e Regno Unito. Per quanto riguarda i dispositivi mobili, invece, gli Stati europei sono mediamente più protetti di quelli di tutte le altre aree geografiche considerate, a eccezione del Giappone.

La pandemia di coronavirus ha peggiorato notevolmente questa situazione. Nell’aprile 2020, lo Swiss National Cybersecurity Center ha ricevuto 350 segnalazioni di attacchi informatici (phishing, siti web fraudolenti, attacchi diretti ad aziende, ecc.) rispetto alle solite 100-150. Le ragioni di questo incremento, secondo un’analisi condotta da Deloitte, sono imputabili a un maggior ricorso allo smart working. Lavorare all’interno delle sedi aziendali permette ai dipendenti, pur svolgendo le stesse funzioni, di operare in un ambiente IT molto più protetto rispetto a quello offerto dai normali personal computer di casa. Le aziende, che sono spesso obiettivi privilegiati, investono notevoli risorse in sistemi di cybersecurity e spesso hanno al proprio interno un intero dipartimento che si occupa di sicurezza informatica. Questo fa sì che oltre a strutturare un perimetro più difficile da valicare, sia notevolmente più rapita l’identificazione di eventuali intrusioni. Per più tempo un malintenzionato ha accesso ai nostri device e più informazioni personali ci potrà sottrarre. I normali utenti (senza conoscenze specifiche) non hanno le capacità e gli strumenti adatti a proteggersi adeguatamente da queste minacce.

Direttore Area Digitale dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Nato ad Avellino nel 1990. Ha conseguito una laurea triennale in “Economia e gestione delle aziende e dei servizi sanitari” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e successivamente una laurea magistrale in “International Management” presso la LUISS Guido Carli. Al termine del percorso accademico ha frequentato un master in “Export Management & International Business” presso la business school del Sole 24 Ore.

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