Le differenze regionali che caratterizzano le performance del nostro Servizio sanitario nazionale risultano in diminuzione, sebbene siano sempre presenti. L’assistenza territoriale, misurata indirettamente, risulta in miglioramento ma non ancora ottimale. A rivelarlo è il Programma nazionale esiti 2020 secondo cui, nonostante i tagli degli anni precedenti e il personale contingentato, le prestazioni sono in progressivo miglioramento sul piano degli standard di qualità raggiunti dai servizi e con trend positivi nella maggior parte delle aree assistenziali. Questi dati e il loro monitoraggio possono offrire interessanti elementi per riorganizzare ed efficientare il nostro SSN, sopratutto alla luce della necessaria ripartenza post Covid-19.
Il Programma Nazionale Esiti (Pne), sviluppato da Agenas su mandato del ministero della Salute, ha l’obiettivo di valutare l’efficacia nella pratica, l’appropriatezza, l’equità di accesso e la sicurezza delle cure garantite dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) nell’ambito dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). Prodotto in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e con il dipartimento di Epidemiologia dell’Asl Roma 1, il programma ha messo sotto la lente di ingrandimento le prestazioni erogate negli ospedali pubblici e privati, accreditati e non, e ha passato al setaccio volumi di attività, dati di mortalità, tempi di intervento e altri indicatori in grado di misurare gli esiti delle performance raggiunte.
I dati del programma offrono interessanti elementi di conoscenza riguardo ad alcune criticità dell’organizzazione sanitaria, che vanno attentamente monitorate rispetto alle diverse declinazioni regionali e agli andamenti temporali, anche nella prospettiva di un riorientamento dei servizi che dovrà caratterizzare la nuova fase di ripartenza dopo l’emergenza Covid-19. Tali difficoltà riguardano, in special modo, una persistente tendenza alla frammentazione della casistica ospedaliera per patologie su cui esistono evidenze di una relazione volume-esito, a fronte dei numerosi tentativi di razionalizzare l’offerta ospedaliera attraverso l’implementazione delle reti assistenziali.
Ulteriori aspetti da considerare riguardano la perdurante presenza di sacche di inadeguatezza rispetto a procedure erogate in assenza di specifiche indicazioni cliniche o in contesti organizzativi non appropriati. Infine il tema della cosiddetta “ospedalizzazione evitabile”, che mette in luce l’esistenza di carenze e ritardi a livello della medicina territoriale e delle cure primarie.
L’assistenza mostra il fianco anche sul fronte della tempestività nell’accesso alle cure, soprattutto nell’ambito delle reti tempo-dipendenti, criticità già evidenziata durante questo anno di pandemia. Non manca il ricorso a pratiche inappropriate sul piano clinico organizzativo, basti considerare i parti cesarei che nonostante abbiano rallentato la loro corsa ancora non raggiungono gli standard previsti.
“I dati del PNE confermano un graduale miglioramento della qualità delle cure a livello nazionale su tutte le aree cliniche analizzate“, ha dichiarato il direttore generale di Agenas Domenico Mantoan, ma c’è ancora molto da fare “per superare alcune criticità quali la frammentarietà dell’assistenza ospedaliera, nonché per limitare le disomogeneità di prestazioni presenti sia a livello interregionale sia intra-regionale“. Da questo punto di vista, Mantoan ha ribadito “l’impegno di Agenas “nella definizione di una maggior efficacia degli interventi sanitari, nonché di qualità, sicurezza e umanizzazione delle cure”.
Dal Programma nazionale esiti emerge come per quanto riguarda le performance legate alle fratture di femore operate entro le 48 ore nei pazienti over 65, indicatore essenziale per verificare la qualità del processo assistenziale, il 66,8% delle strutture abbia raggiunto gli standard previsti. In pratica, dal 2012 a oggi il 25% in più dei pazienti in questo arco temporale è entrato in camera operatoria entro 2 giorni. Ma le notizie incoraggianti non finiscono qui. È diminuito pure il gap tra regioni, soprattutto grazie a un progressivo recupero in quelle del Sud: se nel 2012 lo scarto era del 35,4% (da 21,5 a 56,9%) ora si è ridotto al 24 (da 55,3 al 79,8%). In generale, è stata registrata una migliore equità di accesso a un trattamento di provata efficacia e di riduzione delle disabilità e della mortalità. Ciò non toglie, tuttavia, che le performance di alcune regioni siano deficitarie: in Molise e in Calabria la mediana è rispettivamente del 33,7 e del 35,5%. Percentuali basse se paragonate a quelle di Trento (84,8%), che indicano come ci sia ancora molto da fare.
Altri indicatori analizzati nel programma si concentrano, invece, sulle prestazioni sanitarie dei punti nascita. Il numero di parti si è progressivamente ridotto nel corso del tempo ed è passato da 441.078 del 2018 a 417.144 nel 2019 (-5,4%). Il 32,2% delle strutture considerate (sia pubbliche che private non accreditate) ha eseguito più di mille parti annui e ha coperto il 62,4% del volume totale su base nazionale. Ma il 6,8% rimane ancora al di sotto del valore soglia delle 500 nascite annue fissato dal decreto ministeriale numero 790. Maglia nera, invece, per il 17,6% delle strutture del Lazio, il 13,4 della Sicilia e il 10,6 della Campania.
Sotto il profilo della frequenza dei parti cesarei, che da sempre rappresenta un collo di bottiglia per l’appropriatezza delle performance sanitarie, è possibile riscontrare una diminuzione progressiva negli ultimi anni. Si è passati da un valore mediano del 25,3 a 21,5% nel 2019 (eravamo al 37% nel 2004). Soprattutto negli ultimi tre anni è stato registrato un forte rallentamento, ma si tratta di numeri ancora insufficienti rispetto allo standard internazionale fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità al 10-15% del totale dei parti. Come per le fratture al femore, si conferma un’eterogeneità interregionale e intra-regionale. Nel 2019 sono state segnalate strutture con percentuali di taglio cesareo primario che superavano il 50% (Sicilia) o addirittura il 60% in Campania.
In ambito protesico, si è ridotto anche il livello di frammentarietà registrato in passato nel nostro Paese per gli interventi di artroprotesi (anca, ginocchio e spalla) e questo rappresenta un guadagno in termini di sicurezza dei pazienti, in ragione delle evidenze di associazione tra volume di attività ed esiti di salute (mortalità, complicanze, durata della degenza, infezioni, rischio di riammissione ospedaliera entro 30 giorni).
Luci, ma anche molte ombre, sul fronte del trattamento del carcinoma mammario, che rappresenta il 30% del totale dei tumori in Italia. Il Pne ha riportato i dati relativi al re-intervento entro 120 giorni da un intervento conservativo. La proporzione di nuove resezioni si è ridotta nel tempo passando dall’11,3 del 2012 al 6,4% del 2019. Ancora una volta, la situazione non è la stessa in tutto il territorio nazionale.
Alcuni indicatori di ospedalizzazione misurano indirettamente la qualità delle cure di prossimità, in quanto permettono di rilevare un eccesso di ricoveri potenzialmente evitabili attraverso una corretta e tempestiva presa in carico del paziente a livello territoriale. Tra le patologie croniche considerate nell’ambito del Pne, il tasso di ospedalizzazione per le complicanze del diabete, a breve e lungo termine, ha mostrato negli ultimi anni una lieve riduzione ed è passato da 0,42 nel 2016 a 0,38% nel 2019. Il Piemonte, la Puglia e l’Abruzzo sono le regioni maggiormente interessate da un’elevata variabilità.
Un’altra patologia tracciante rispetto all’ospedalizzazione evitabile è la broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco): il tasso di ricovero si è ridotto nel tempo da 0,42 nel 2016 a 0,38% nel 2019. E nel 2019 sono stati quasi 27.000 i pazienti a cui è stata risparmiata un’ospedalizzazione rispetto al 2012. C’è tuttavia ancora un differenza inter e intra regionale delle performance in questo campo. Critico il valore della Puglia, che oltre a presentare un valore nettamente al di sopra della media nazionale, ha fatto registrare nel 2019 un’elevata variabilità̀ territoriale. Come è ormai tristemente noto, la medicina di prossimità deve ancora fare molti passi avanti per attestarsi ad un livello adatto ad affrontare crisi sanitarie come quella a cui abbiamo dovuto far fronte nell’ultimo anno.