5G, cresce il fronte di chi vuole alzare i limiti elettromagnetici (per adeguarli al resto d’Europa)


Articolo
Silvia Compagnucci
5g

Nell’ultimo anno siamo stati catapultati in un mondo nuovo fatto di smart working, didattica a distanza, telemedicina, relazioni tenute vive da un telefono o una videochiamata. Certamente la crisi economica che stiamo attraversando come Paese, la perdita emotiva e relazionale conseguente alla necessità di osservare il distanziamento sociale rappresentano gravissimi motivi di preoccupazione che impongono alle istituzioni e ai singoli uno sforzo congiunto. La pandemia ci ha però anche rivelato opportunità nuove, forse impensabili fino a un anno fa e ha ancora una volta dimostrato – semmai ce ne fosse ulteriormente bisogno – quanto irrinunciabili siano il digitale, la diffusa disponibilità di reti e dispositivi performanti e il possesso di adeguate competenze che consentano di godere a pieno dei benefici offerti da questo sviluppo.

Le mutate abitudini di cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni e il crescente interesse per i servizi digitali catalizzato dalla pandemia hanno reso ancor più irrinunciabili gli obiettivi di connettività fissati dall’Unione europea. In particolare, dopo aver fissato nella Comunicazione Gigabit Society del 2016 l’accesso a una connettività a Internet con un downlink almeno a 100 Mbps nelle aree rurali ed urbane  per tutte le famiglie europee entro il 2025, il 9 marzo 2021 nella comunicazione “Bussola digitale 2030: la via europea per il decennio digitale” (COM(2021)118) le istituzioni europee hanno annunciato nuovi e sfidanti obiettivi, innalzando la posta e prevedendo, per il 2030, connessioni Gigabit per tutte le famiglie europee.

IL TEMA DELLA CONNETTIVITA’ TRA OBIETTIVI EUROPEI E AMBIZIONI NAZIONALI 

In questo contesto di fortissima attenzione per lo sviluppo delle reti di telecomunicazione l’Italia si trova a giocare una partita a elevata complessità.
Nell’audizione del 18 marzo 2021 il ministro dell’Innovazione tecnologica e della Transizione digitale Vittorio Colao, partendo dalla constatazione che le diseguaglianze e i divari territoriali sono risultate più evidenti durante la pandemia, che ammodernare le infrastrutture è un dovere dello Stato e che la connettività è un diritto, ha indicato scopi ancor più ambiziosi di quelli tracciati a livello di Unione europea per il 2030: assicurare il raggiungimento di questi obiettivi fin dal 2026.

Sebbene desiderabile e auspicabile, tale anticipazione si inquadra, tuttavia, in un contesto nazionale a oggi ancora caratterizzato da enormi criticità. Spesso si tratta di questioni connesse al tradizionale eccesso di burocrazia che purtroppo ci caratterizza oppure sono legate al pieno raggiungimento degli obiettivi di copertura e penetrazione (peraltro decisamente meno ambiziosi) che erano stati fissati nella Strategia nazionale varata nel 2015. Nonché una grave immaturità della domanda, tanto che, secondo i dati riportati dallo stesso ministro Colao, oggi la copertura Ftth raggiunge poco meno del 34% delle famiglie, il 39% del totale non ha attivato offerte di accesso a Internet su rete fissa e oltre 5,5 milioni di nuclei familiari, ossia il 21%, usufruiscono di servizi su rete fissa con velocità inferiore ai 30 Mbps.

In considerazione del ritardo accumulato rispetto alla tabella di marcia tracciata e al fine di imprimere un’accelerazione al processo di infrastrutturazione in corso, con il decreto legge numero 76 del 2020 (convertito con legge numero 120 del 2020) sono stati introdotti diversi interventi di semplificazione per la realizzazione delle reti in fibra ottica per la banda ultra-larga e per l’installazione degli impianti di rete per le connessioni mobili, con particolare riferimento alle necessità di riconfigurazioni delle reti mobili per il 5G.

LO SVILUPPO DEL 5G TRA PRIMATI E ARRESTI

Lato 5G, sebbene l’Italia figuri tra i Paesi Ue più avanzati  – dato che per le sperimentazioni siamo andati ben oltre la città richiesta dall’Action Plan delineato dalla Commissione individuando ben 5 città (Milano, Prato, l’Aquila, Bari e Matera) e abbiamo assegnato, con tempestività, il 94% dello spettro armonizzato a livello europeo per la banda larga senza fili – i numeri ci posizionano ancora molto lontano dalle aree più avanzate al mondo (Usa, Cina, Corea e, guardando al continente europeo, Svizzera) in termini di realizzazione di siti per il 5G.

Le questioni da risolvere per evitare di accumulare ulteriori ritardi sono tante, diverse, concomitanti e di varia complessità. Un fattore cruciale è rappresentato senza dubbio dagli ingenti investimenti richiesti agli operatori per realizzare le reti (dopo le enormi somme versate in sede di asta 5G), una questione cruciale rispetto alla quale le risorse stanziate nell’ambito di Next Generation Eu potrebbero fare la differenza. A ciò si affiancano le resistenze delle amministrazioni locali a causa di presunti – e non dimostrati – timori legati alla tutela della salute dei cittadini esposti alle emissioni elettromagnetiche. Un problema che il decreto Semplificazioni ha cercato di superare vietando agli amministratore locali di opporsi all’installazione delle antenne se queste rispettano i limiti di emissione dei campi elettromagnetici e i piani urbanistici, nonché la vigenza di norme estremamente rigorose in termini di emissioni elettromagnetiche che, evidentemente, impattano sulla progettazione e gestione delle infrastrutture mobili.

Le linee guida relative all’esposizione al campo elettromagnetico formulate dalla comunità scientifica e le normative nazionali e internazionali che disciplinano l’esposizione della popolazione a campi elettromagnetici fissano vincoli nella produzione e funzionamento di apparati elettrici ed elettronici di uso personale e nella progettazione e gestione di grandi infrastrutture di servizio come i trasmettitori televisivi e le stazioni radio base delle reti radiomobili, al fine di scongiurare il prodursi di eventuali effetti nocivi sugli individui che si trovano nelle immediate vicinanze. Ebbene, considerato che nella progettazione delle infrastrutture vengono fissati obiettivi di copertura dell’area, di qualità del servizio e di capacità della rete, è chiaro che più sono bassi i limiti, maggiore deve essere il numero di stazioni base radio da installare per garantire il raggiungimento degli stessi obiettivi di copertura e qualità.

Ne discende che, poiché la valutazione del rispetto dei limiti di esposizione richiede di considerare la potenza emessa complessivamente da tutti i sistemi in tutte le frequenze e da parte di tutti gli operatori che condividono il singolo sito fisico, se i limiti sono stringenti si riduce la possibilità per gli operatori di aggiungere apparati 5G nei siti fisici dove sono già installati gli impianti delle stazioni radio base utilizzati per le generazioni tecnologiche precedenti. Da qui la necessità per gli operatori di sostenere tutti i maggiori oneri connessi all’identificazione di nuovi possibili siti, alla costruzione degli stessi, all’acquisto e installazione degli apparati d’impianto, oltre agli oneri operativi di esercizio.

A livello internazionale le linee guida per la sicurezza dell’esposizione a campi elettromagnetici a radio frequenza sono state sviluppate principalmente da due organismi scientifici: la Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni non Ionizzanti (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection, ICNIRP) e l’Istituto degli Ingegneri Elettrici ed Elettronici, Comitato Internazionale sulla Sicurezza Elettromagnetica (IEEE International Committee on Electromagnetic Safety, IEEE ICES).

Le linee guida dell’ICNIRP pubblicate nel mese di marzo 2020, in particolare, hanno aggiornato la precedente versione del 1998 confermando i valori già indicati allora ai quali la maggior parte dei Paesi europei si sono sempre conformati. L’Italia, al contrario, ha adottato una normativa molto più severa (DPCM 08/07/2003) che indica un limite di 20 V/m nell’intervallo delle frequenze compreso tra 3 MHz e 3 GHz, nonché valori di attenzione e obiettivi di qualità. I valori di attenzione, in particolare, consistono nel livello di riferimento di 6 V/m da non superare nelle aree a permanenza prolungata (superiore a 4 ore), incluse le relative pertinenze esterne, mentre gli obiettivi di qualità fissano lo stesso limite di 6 V/m per le aree intensamente frequentate come parchi gioco e luoghi destinati ad attività sociali. La legge numero 221 del 2012 è intervenuta su tale disciplina, prevedendo che i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità siano intesi non più come valori mediati su 6 minuti ma nell’arco delle 24 ore.

Il rapporto dell’Istituto superiore di sanità del luglio 2019 mostra le differenze tra i livello di riferimento ICNIRP e la normativa italiana per le bande di frequenza 10-100 MHz e per quelle relative alla telefonia mobile GSM (915 MHz, 1800 MHz) e UMTS (2000-2700 MHz) sintetizzate nella tabella che segue.

Credit: Istituto superiore di sanità

Partendo da tali considerazioni è chiaro quanto sia indispensabile, in assenza di evidenze scientifiche contrarie, rompere gli indugi e avviare una riflessione pragmatica che constatando l’opportunità – o meglio la necessità in una logica di sviluppo del 5G – di rivalutare tali limiti, li uniformi agli standard internazionali.

Si tratta, peraltro, di un’esigenza da più parti palesata. Nel parere sul piano nazionale di ripresa e resilienza approvato il 24 marzo scorso dalla commissione Trasporti Tlc della Camera – relatori Enza Bruno Bossio (PD) e Paolo Ficara (M5s) – è stata evidenziata, tra i vari temi, la necessità di accelerare il processo di copertura del Paese, adottando una soluzione basata su un mix di tecnologie in grado di garantire velocità Gigabit che privilegi l’impiego di connessioni FttH nelle aree più densamente popolate e che si avvalga di soluzioni FWA 5G o 5G nelle aree più remote dove è più oneroso e meno efficiente ricorrere a soluzioni fisse per l’adeguamento degli attuali limiti italiani sulle emissioni elettromagnetiche a quelli europei e, a tal fine, l’esigenza di adeguare gli attuali limiti italiani sulle emissioni elettromagnetiche a quelli europei.

Dello stesso avviso anche l’Antitrust che, nella segnalazione inviata al governo ai fini della redazione del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, nella prima sezione, dedicata ai provvedimenti tesi a favorire gli investimenti in infrastrutture strategiche tra cui quelle digitali, ha sollecitato vari interventi. Tra questi, la revisione dei limiti elettromagnetici in considerazione del fatto che i nostri, molto più stringenti di quelli europei, rischiano di ostacolare l’ingresso di nuovi operatori e favoriscono la proliferazione di nuove torri.

Sulla necessità di intervenire ci sono, dunque, pochi dubbi e molte certezze ormai. È chiaro che l’innalzamento dei limiti elettromagnetici porti con sé una forte carica di impopolarità ed enormi rischi di strumentalizzazione da parte di quanti per malizia o ignoranza preferiscono cavalcare il mito della dannosità delle emissioni e della pericolosità del 5G anche a costo di rinnegare un’evidenza tecnica. Ossia che, essendo le antenne 5G dinamiche, irradiano potenza selettivamente, mediante un fascio stretto solo nella direzione dove si trova il terminale d’utente e solo nella misura richiesta dalla qualità del collegamento, producendo addirittura un minor inquinamento elettromagnetico che renderebbe quanto mai necessario consentire un efficace utilizzo dei siti fisici già esistenti.

Quella dell’adeguamento dei limiti elettromagnetici agli standard internazionali è una partita delicata, una questione annosa, regolarmente riproposta negli anni e ancora irrisolta ma che esige un’azione decisa e coraggiosa poiché è uno dei tasselli da cui dipende il futuro infrastrutturale del Paese e la sua capacità di beneficiare appieno delle opportunità offerte dalla digitalizzazione.

Vicepresidente dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Tor Vergata nel 2006 ha partecipato, nel 2009, al master di II Livello in “Antitrust e Regolazione dei Mercati” presso la facoltà di Economia della medesima università conseguendo il relativo titolo nel 2010, anno in cui ha conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

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