L’Istat ha pubblicato, qualche giorno fa, un e-book sulle attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) nel nostro Paese, un settore di rilievo e, come ricorda l’istituto, fondamentale per la redditività e il prestigio innovativo del nostro sistema produttivo. Gli investimenti delle imprese in questo settore precedono l’innovazione, ne sono il presupposto e spesso la generano. E, in effetti, le nostre aziende sembrano sempre più impegnate sul tema, pure quelle piccole e medie, che hanno iniziato ad affacciarsi a questo genere di investimenti. Mentre, al contrario, i settori istituzionali segnano un sostanziale progressivo disinvestimento, che rischia di confinare l’Italia ad un ruolo marginale in ambito europeo.
Lo studio fa un primo punto sull’attività di ricerca e sviluppo svolta nel nostro Paese. Nel 2018 la spesa in R&S da parte di imprese, istituzioni pubbliche, organizzazioni no profit e università ammonta a 25,2 miliardi di euro, con un’incidenza percentuale sul Prodotto interno lordo pari all’1,43%. Si fa notare, in particolare, il Nord-est, dove la quota di investimenti di R&S sul Pil è passata dall’1,43% del 2015 al 1,64% del 2018, di gran lunga superiore rispetto a Sud (0,99%) e Isole (0,82%), ma più elevata pure di Nord Ovest (1,53%) e Centro (1,57%).
Protagoniste di queste attività sono le imprese, cui è attribuibile ben il 63,1% della spesa totale: si tratta, però, prevalentemente di attività di ricerca sperimentale con un valore pari al 54,2% del totale (8,6 miliardi di euro), mentre il 37,9% è orientato alla ricerca applicata (6 miliardi di euro) e solo il 7,9% alla ricerca di base (circa 1,3 miliardi di euro). Quest’ultima è la componente della R&S caratterizzata da maggiore livello di rischio in quanto si definisce come lavoro sperimentale o teorico intrapreso principalmente per acquisire nuove conoscenze sui fondamenti dei fenomeni e dei fatti osservabili, non finalizzato a una specifica applicazione o utilizzazione. Mentre la ricerca applicata e quella sperimentale hanno uno scopo specifico: acquisire nuove conoscenze finalizzate ad una specifica applicazione, la prima, e la produzione di nuovi prodotti/processi o il miglioramento di quelli esistenti, la seconda. Va da sé che queste due sono il principale bacino di interesse di soggetti quali le imprese, decisamente meno interessate ad un tipo di ricerca più generale e rischiosa, quale quella di base, cui sono invece maggiormente dedicati gli altri attori istituzionali.
A livello geografico, delle 18.666 imprese che investono in ricerca e sviluppo, oltre il 70% è ubicato al Nord, con il 75% della spesa in R&S delle aziende concentrato in sole cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto e Lazio. Mentre le imprese del Centro e del Mezzogiorno costituiscono complessivamente meno di un terzo. Non solo: le regioni del Mezzogiorno investono solo un ventesimo del totale investito da tutte le imprese dislocate sul territorio nazionale.
Dal focus territoriale svolto dall’Istat emerge, così, un ruolo determinante delle istituzioni pubbliche nel Mezzogiorno nell’anno 2018. Il finanziamento da parte loro della spesa in R&S delle imprese potrebbe contribuire a colmare il divario territoriale, agendo da stimolo e imprimendo una direzione verso l’impegno ad investire nella ricerca di base e soprattutto nel finanziare la spesa in R&S in generale nelle province del Mezzogiorno.
Inoltre, in molti casi, il ruolo mancato dallo Stato finanziatore di Ricerca e sviluppo nelle regioni che da sole non riescono a decollare non è sufficientemente bilanciato da un intervento indiretto di sostegno e finanziamento della R&S delle imprese meridionali. Le ragioni sono probabilmente da ricondurre alla struttura dimensionale connessa al settore di produzione delle imprese. Infatti, le grandi aziende investitrici in R&S del Nord sono in prevalenza quelle dei settori tradizionalmente più vocati alla ricerca, stimolate dalla necessità di mantenere quote di mercato rilevanti sia sul territorio nazionale sia a livello globale.
Se le imprese, nel loro complesso, hanno dato segnali positivi, dall’altro lato si è ridotto significativamente il ruolo delle Università (-6,2 pp rispetto al 2015), del settore pubblico (-3,5 pp) e del non profit (-0,9 pp). E purtroppo – segnala l’Istituto – le istituzioni pubbliche e le università, contraendo il loro ruolo di enti finanziatori, rischiano di lasciare sostanzialmente scoperte molte regioni dove la quota dell’investimento pubblico e di quello accademico è stato spesso il modo prevalente con cui la ricerca è stata presente. In particolare, l’analisi svolta suggerisce che il passo lento di università e istituzioni pubbliche è probabilmente all’origine della presenza a macchia di leopardo della ricerca di base, fondamentalmente allocata nelle aree dov’è il settore pubblico a finanziare la ricerca.
È pur vero che non esistono solo divergenze territoriali ma anche punti di convergenza che, se opportunamente valorizzati, potrebbero dare un forte slancio alla ricerca italiana. Ad esempio, le imprese specializzate in Informatica e quelle specializzate in Ricerca &Sviluppo sono in grado di intessere importanti relazioni, al di là delle differenze territoriali o di vocazione produttiva, che potrebbero essere ulteriormente valorizzate.
Un momento come questo, in cui molte imprese stanno vivendo una pesante battuta d’arresto, può rappresentare – suggerisce l’istituto di statistica – il pretesto per creare i presupposti del cambiamento, sottolineando come una ripresa del finanziamento alle imprese da parte del settore pubblico e delle università potrebbe modificare, in positivo, il posizionamento dell’Italia all’interno del gruppo dei Paesi europei virtuosi che investono quote rilevanti del Pil in R&S.