La ripresa della domanda dell’industria in tante economie del mondo, man mano che la pandemia da Covid-19 ha iniziato a cedere sotto la spinta dell’avanzamento della campagna vaccinale, ha comportato un aumento record dei prezzi delle materie prime. Dall’autunno scorso hanno mostrato un trend di crescita, con una dinamica molto robusta nella prima metà del 2021, fino a raggiungere livelli che non si toccavano da diversi anni. E le materie prime energetiche sono proprio tra queste.
Tanto è bastato per far interrogare esperti, operatori di mercato e istituzioni finanziarie: si tratta di un nuovo “superciclo” delle materie prime o di manovre speculative? C’è il rischio di inflazione? La paura di un rialzo significativo dei prezzi ha fatto capolino da diversi osservatori. Si prenda ad esempio un’apertura del Wall Street Journal del 7 giugno, che agitava la minaccia dell’inflazione sulla ripresa economica globale. “The run-up in commodity prices is casting a cloud over the global economic recovery, slamming vulnerable businesses and households and adding to fears that inflation could become more persistent”, scriveva la testata statunitense. Lo U.S. Labor Department ha riportato per il mese di maggio un aumento dell’indice core dei prezzi al consumo (quello che esclude i prezzi dell’energia e degli alimenti, la componente più volatile) del 3,8% su base annua, il massimo da 28 anni. Allo stesso tempo, sono stato riviste al rialzo le aspettative di aumento annuale dei prezzi.
A raffreddare i timori che gli straordinari stimoli monetari e fiscali attivati dalle maggiori economie possano ostacolare la ripresa è intervenuta direttamente la Federal Reserve. Il Chairman della banca centrale USA, Jerome Powell, ha qualificato come transitoria la tendenza inflazionistica. Nell’opinione della FED, i prezzi che stanno guidando l’aumento dell’inflazione provengono da categorie di beni che sono direttamente legati alla riapertura dopo la crisi Covid e alla ripresa della domanda dell’industria. Non si intravede all’orizzonte, pertanto, possibilità di tapering (normalizzazione graduale della politica monetaria dopo i massicci programmi di acquisto di titoli di Stato), i tassi di riferimento a breve termine rimangono ancorati vicino allo zero e un eventuale rialzo dei tassi viene previsto per il 2023 (scadenza precedentemente stimata per il 2024). Allo stesso modo, anche indagini svolte presso i gestori di fondi danno come largamente prevalente la valutazione per cui l’aumento dei prezzi attuale abbia carattere temporaneo. Come insegnano gli economisti, quindi, si tratterebbe di fluttuazioni transitorie, mentre l’inflazione “core” sarebbe piuttosto stabile.
Sono altresì i dati più recenti a sgonfiare le previsioni di una crescita consistente dell’inflazione. I prezzi a cui vengono scambiati metalli e materie prime agricole (dal palladio al platino, dal grano al legname) nell’ultima settimana hanno conosciuto un calo. Le quotazioni del rame, uno dei metalli più richiesti dalle politiche di decarbonizzazione, hanno segnato il minimo da due mesi a questa parte (ma comunque rimangono su un livello più che doppio rispetto a un anno fa).
Diverse le motivazioni dei ribassi. Tra queste il rafforzamento del dollaro, legato a rumors su una possibile stretta da parte della FED. E le materie prime spesso si muovono inversamente rispetto al dollaro perché sono generalmente così denominate a livello globale. Ma hanno anche inciso le azioni cinesi. Il gigante asiatico ha annunciato un piano per liberare riserve di Stato di metalli chiave, tra cui rame e alluminio, secondo Reuters, e messo in guardia contro manovre speculative sui mercati finanziari.
Continua a crescere, invece, il barile di petrolio. Il Brent, con un rialzo di oltre il 40% rispetto a inizio 2021, ha superato i 75 dollari, ai massimi da due anni a questa parte, e la domanda sta rapidamente tornando sui livelli pre-Covid, con la possibilità anche di superarli. Segnale che il declino del petrolio rappresenta un fenomeno tutt’altro che scontato.