A marzo 2021 nei Paesi Ocse si contano 22 milioni di posti di lavoro in meno rispetto alla fine del 2019. In conseguenza della pandemia, l’Italia ha registrato un aumento del tasso di disoccupazione minore rispetto a quello medio dell’area considerata, anche grazie al ricorso alla cassa integrazione e al lavoro agile, mentre risulta particolarmente grave la la situazione se guardiamo ai giovani.
L’Ocse – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – ha pubblicato nel suo Employment Outlook le analisi relative ai cambiamenti che il mercato del lavoro ha subito in conseguenza dell’emergenza sanitaria nei 36 Paesi che fanno parte dell’organizzazione internazionale. Sono più di 20 milioni i posti di lavoro persi dall’inizio della pandemia, mentre sono 14 milioni le persone che, scoraggiate dalle prospettive di mercato o per la paura del contagio, hanno deciso di non cercare lavoro e che per questo rientrano tra gli inattivi. La pandemia ha portato a un rallentamento drastico e repentino delle dinamiche lavorative, tanto che il tasso di disoccupazione dell’area è saltato dal 5,3% di dicembre 2019 al preoccupante 8,8% di aprile 2020. Il dato di maggio 2021 è più rassicurante, poiché ne registra una progressiva riduzione al 6,6%, ma resta il timore che una ripresa troppo lenta possa tradursi in una disoccupazione di lungo periodo.
Nella parte di rapporto dedicata all’Italia si legge come il declino dell’occupazione registrato all’inizio dell’emergenza sanitaria del nostro Paese (-1%) sia stato meno significativo di quello medio dell’area Ocse (-5%), probabilmente grazie all’esistenza di schemi di sostegno del mercato del lavoro, quali la cassa integrazione. Il ricorso a questi strumenti ha raggiunto il suo picco ad aprile 2020, quando interessavano il 30% del totale dei lavoratori, una percentuale ben al di sopra della media Ocse, che si è invece fermata al 20. Lo schema di sostegno italiano è stato allargato alla maggior parte delle imprese e dei settori colpiti dalla crisi, anche quelli che precedentemente ne erano esclusi e ha assunto ancora più importanza alla luce del graduale eliminazione del blocco dei licenziamenti da luglio 2021.
Nonostante il peggioramento delle dinamiche lavorative dovuto alle misure di contenimento del contagio e l’iniziale impennata della disoccupazione, nel corso del 2020 la situazione occupazionale italiana è migliorata lievemente, ma in maniera stabile. Tuttavia, a febbraio 2021 si contavano comunque 945.000 posti di lavoro in meno rispetto all’anno precedente mentre a maggio il tasso di disoccupazione si attestava al 10,5%, ben un punto percentuale in più rispetto a dicembre 2019. Stando alle analisi dell’Ocse, il mercato del lavoro italiano tornerà ai livelli pre-crisi durante il terzo trimestre del 2022, prima della media dell’area, più tardi rispetto alla Germania ma contemporaneamente alla Francia.
Particolarmente preoccupante, invece, è il livello della disoccupazione giovanile, che in Italia è passato da un già alto 28,7% a un picco del 33,4 a gennaio 2021, senza dare cenni di ripresa neanche durante la primavera. Per comprendere meglio l’entità del problema basta pensare che in media nell’area Ocse ha raggiunto il suo punto più alto ad aprile 2020, piazzandosi al 19%, per poi sgonfiarsi al 14% dopo un anno.
Un altro elemento che ha caratterizzato la crisi da Covid è stato l’ampio ricorso allo smart working. La diffusione del lavoro da remoto ha interessato il 37% degli occupati dell’area Ocse durante la pandemia, con un incremento di 11 punti percentuali rispetto al periodo pre-pandemia. Tuttavia, lo strumento del lavoro agile è stato utilizzato in maniera sbilanciata, visto che a fronte del 55% dei lavoratori con un elevato grado di istruzione, solo il 19% di coloro con un basso livello di istruzione ha potuto lavorare da remoto. Queste dinamiche sono risultate ancora più evidenti in Italia.
Prima dell’emergenza solo il 5% dei lavoratori ricorrevano allo smart working, mentre con la crisi, la percentuale è salita al 49%. Tuttavia, le possibilità di accesso alle modalità agili di lavoro non sono state equamente distribuite nel nostro Pase, dove il 60% dei lavoratori con un diploma di laurea ha potuto continuare a lavorare da casa, mentre la quota di coloro con un titolo di studi inferiore alla maturità che ha potuto beneficiare di questa opportunità è pressoché nulla.