È un mondo che corre veloce quello di oggi. La pandemia, la digitalizzazione, il mercato del lavoro che cambia. E allora occorre adoperarsi per interpretare, comprendere e affrontare dinamiche dalle quali c’è il rischio di essere travolti. Tra tutte quella occupazionale, che coinvolge indiscriminatamente giovani e adulti. Il mondo del lavoro sta cambiando pelle e adattarsi non è sempre così semplice: le soft e le digital skills, la specializzazione crescente, la competizione che si fa più agguerrita e internazionale. Ma in questo contesto così complesso e in continua evoluzione, cosa bisogna fare per continuare a surfare l’onda del mondo del lavoro? Ne abbiamo parlato con Davide Caiazzo, avvocato, imprenditore digitale, formatore e amministratore delegato di My Governance, società che si occupa di digitalizzare i processi dei dipartimenti Human Resources, Legal e Compliance delle aziende.
La pandemia ha impresso una grande spinta ai processi di digitalizzazione, ma anche un crollo dell’occupazione. Cosa è cambiato sotto questo profilo nel mondo del lavoro?
Il Covid-19 ha portato con sé grandi cambiamenti: alcuni posti di lavoro sono scomparsi mentre altri sono stati creati, soprattutto nel campo dell’Information Technology, ma anche del digitale e del marketing. Ora è necessario individuare la soluzione per chi, come i neolaureati, si sta affacciando in questi mesi sul mercato del lavoro. Il mondo va talmente veloce da aver reso la formazione un processo continuo nel tempo. E poi attribuire sempre più importanza alla specializzazione. Verticalizzazione è la parola chiave fondamentale.
A suo avviso quanto pesa la questione del gap tra offerta formativa e richieste delle aziende?
In realtà faccio fatica a credere che non ci siano persone sufficientemente preparate per ricoprire determinati ruoli. La questione, semmai, è di altra natura: molte realtà, spesso, non sono disposte a retribuire quelle figure in maniera adeguata. Il mismatch, quindi, è tra ciò che alcune aziende cercano (incluse capacità, competenze ed esperienze) e quanto sono disposte a pagare.
Pensa che in questo contesto il cosiddetto personal branding possa rappresentare un elemento di svolta?
Assolutamente sì. Ma facciamo un passo indietro e partiamo da una definizione di personal branding. Utilizzando parole non mie, direi sia quello che gli altri dicono di te quando non sei nella stanza. Ovvero tutte quelle attività rivolte a farti conoscere come riferimento di un determinato settore. Mi raccomando però, il motivo per cui ti conoscono (e riconoscono) deve essere molto specifico. Un esempio? Se dico critico d’arte, la prima persona che dovrebbe venire in mente è Vittorio Sgarbi. Quindi, nel momento in cui si ha un’identificazione netta tra la propria persona e il ruolo che si ricopre, ecco che il personal brand esiste.
Ma su cosa bisogna puntare?
Ci sono alcuni asset fondamentali. Prima di tutto essere consapevoli di quale sia la propria competenza principale e saperla legare a una storia per differenziarci da tutto il resto. A questo punto lo step successivo è generare fiducia, quindi raggiungere determinate persone appartenenti a una nicchia ben specifica.
Il personal branding può avere un ruolo nel mercato del lavoro post-pandemia?
In questo momento storico è fondamentale, soprattutto per liberi professionisti e piccoli imprenditori. Stiamo passando da un mondo guidato dai macroinfluencer a un altro in cui a pesare di più sono i cosiddetti microinfluencer. Nell’epoca della digitalizzazione le persone hanno realmente la necessità di fidarsi dei brand prima di acquistare uno dei loro servizi o prodotti.
Quali sono, a suo avviso, le caratteristiche (o soft skills) più ricercate sul mercato del lavoro?
La voglia di fare, in assoluto. Purtroppo c’è una tendenza in atto che spinge le aziende a occupare sempre di più i liberi professionisti o i freelance, ad esempio. E per contrastarla bisogna dimostrare di non voler tirarsi indietro.
Parlando di start-up, invece, sappiamo che i numeri in Italia sono in crescita, ma ci scontriamo ancora con diverse criticità legate a questioni dimensionali e di finanziamento (nel rapporto 2021 dell’Osservatorio I-Com sull’innovazione energetica “Il futuro dell’energia. Innovazione e sostenibilità binari della transizione“ i numeri sulle piccole imprese innovative in Italia). Qual è, secondo lei, la ricetta per favorirne lo sviluppo nel nostro Paese?
Purtroppo la realtà è che oltre il 90% delle start-up fallisce entro i primi 5 anni di vita a causa di numerosi ostacoli. Tra tutti, la difficoltà di reperire il capitale. Ed è un’esperienza che ho vissuto in prima persona con la mia prima start-up. Il problema italiano, in fondo, è l’assenza di una mentalità legata al rischio d’impresa.
Il primo passo, dunque, sarebbe agire a livello culturale?
Assolutamente. Ma il cambiamento deve essere accompagnato da investimenti seri sui giovani per accompagnarli nel percorso di creazione e crescita di un’attività imprenditoriale di questo tipo. Nel mio caso, ad esempio, non avevo idea di come si creasse un’azienda. Se non mi fossi appoggiato a un cerchia di persone che io stesso ho considerato miei mentori non so se sarei arrivato fin qui. I progetti ci sono, ma fanno difficoltà a essere concretizzati.
Se dovesse dare un consiglio a un giovane che entra oggi nel mercato del lavoro, cosa gli direbbe?
Gli direi di non dare nulla per scontato. Parlando con loro ho potuto percepire il risentimento nei confronti di una mentalità di vecchio stampo che li ha spinti a studiare, studiare, studiare. Ma poi bisogna adoperarsi con qualche passaggio in più. Il mio consiglio, dunque, è: imparare a usare LinkedIn (ho fatto anche dei webinar gratuiti su questo tema), fare networking e costruire un personal brand efficace, che non deve essere per forza verticale come quello di un professionista avviato da tempo.