Tra le misure per la riorganizzazione del lavoro adottate a seguito dell’emergenza Covid-19, il ricorso allo smart working ha rappresentato una delle più indicate per garantire sia la tutela della salute dei lavoratori, sia la prosecuzione delle attività produttive. Secondo i dati contenuti nel rapporto curato dall’Istat “Il mercato del lavoro 2020”, a seguito dello scoppio della pandemia il 21,3% delle imprese ha deciso di offrire ai propri dipendenti forme di lavoro a distanza.
Nella cosiddetta “fase 2” del periodo pandemico, a seguito della riapertura in presenza di buona parte delle attività produttive, la quota delle imprese che hanno continuato a utilizzare questa tipologia di lavoro si è quasi dimezzata, scendendo all’11,3%. Nonostante la seconda fase per buona parte della forza lavoro italiana abbia coinciso con il ritorno in ufficio, in alcuni settori, come quello dei servizi di informazione e comunicazione (51,7%) e della fornitura di energia (43,5%), la quota di lavoratori in smart working è rimasta elevata.
Osservando i dati Istat sulla quota dei persone in smart working, è possibile notare che, dopo il picco di marzo/aprile 2020 in cui quasi la metà dei lavoratori svolgeva la propria attività da casa, la percentuale di dipendenti che avevano accesso a questa modalità di lavoro si è assestata intorno al 30%. A tal proposito, è interessante notare come il numero di lavoratori ancora in smart working nel primo bimestre 2021 (33,7%), periodo in cui le restrizioni erano terminate per la quasi totalità dei settori produttivi, sia circa 7 volte superiore a quello registrato nello stesso periodo dell’anno precedente (5%). La tendenza a utilizzare forme di lavoro agile sembra quindi essere sintomo di un fenomeno che più che transitorio sta diventando strutturale.
Questa trasformazione è destinata a impattare in maniera notevole sulle abitudini di una quota enorme di lavoratori che non saranno più costretti a spostarsi per raggiungere i propri uffici e che di conseguenza avranno meno necessità dei servizi di trasporto. Nello studio “Smartworking e mobilità: l’esperienza del lockdown a Milano”, RSE, in collaborazione con Tandem, ha analizzato com’è cambiata la domanda di mobilità a Milano durante il periodo del lockdown, concentrando in particolare l’attenzione sull’impatto del lavoro agile. L’indagine ha preso in considerazione i dati di spostamento di 35.000 utenti che vivono e lavorano in quell’area. Dallo studio è emerso che gli spostamenti sistematici, in gran parte attribuibili a lavoro o studio, sono diminuiti del 53%. I soli mancati spostamenti imputabili allo smart working (14,5%) potrebbero portare a un risparmio dei consumi energetici quantificabile in 112 chilotep all’anno, che si traducono a livello ambientale in una riduzione delle emissioni quantificabile in 500 tonnellate al giorno di PM 2,5 e 1.300 tonnellate di CO2.
Se da una parte lo smart working influisce positivamente sui consumi generati attraverso gli spostamenti, dall’altra pesa inevitabilmente su quelli domiciliari. Da un’analisi GFK emerge che, tra maggio 2019 e maggio 2020, gli acquisiti di apparecchiature elettriche in Italia sono aumentati notevolmente. Nonostante i prodotti maggiormente interessati da questa crescita siano quelli direttamente collegati allo smart working, ovvero laptop (+105%) e stampanti (+79%), l’aumento ha interessato in maniera sostenuta anche elettrodomestici di uso comune. La crescita è sicuramente attribuibile al maggior tempo passato nelle abitazioni per effetto della pandemia, ma è presumibile che, se lo smart working si consolidasse, il tempo trascorso in casa aumenterebbe in maniera sistematica. A tal proposito, da un’analisi condotta dall’International Energy Agency (IEA) è emerso che lo smart working potrebbe aumentare il consumo energetico domestico quotidiano tra il 7 e il 23% rispetto a una giornata di lavoro in ufficio.