È il cibo ad alto tasso glicemico la causa dell’aumento di peso, non l’elevata assunzione di calorie. Per poter adottare una dieta sana ed equilibrata occorre calibrare non tanto la quantità del cibo, bensì la qualità e la sua composizione. Spostare l’attenzione da un modello basato sul bilancio energetico a uno che si concentra sulle reazioni fisiologiche all’assunzione di carboidrati potrebbe rappresentare un passo in avanti decisivo nella lotta all’obesità.
Gli autori dello studio “Il modello carboidrati-insulina: una prospettiva fisiologica sulla pandemia di obesità”, pubblicato a settembre 2021 sull’American Journal of Clinical Nutrition, hanno analizzato il modello dominante, ne hanno indicato i limiti e hanno proposto un approccio alternativo.
Secondo la visione attualmente condivisa dal mondo della sanità, la larga diffusione dell’obesità in occidente è causata dal consumo di cibo ad alta densità energetica e dalla conduzione di uno stile di vita fortemente sedentario. Tuttavia, i tassi di obesità rimangono alti in molte aree del mondo, nonostante gli sforzi delle istituzioni sanitarie nel suggerire di mangiare di meno e muoversi di più. Secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention, più del 40% degli adulti americani è affetto da obesità e quindi maggiormente esposto a malattie cardiache, infarti e diabete di tipo due.
Secondo gli autori di questa innovativa ricerca, dunque, pensare all’obesità come un disordine del bilancio energetico in termini di calorie non significa altro che ripetere un principio di fisica che però non spiega nulla dei meccanismi fisiologici alla base dell’aumento di peso.
L’alternativa proposta è quella del cosiddetto modello carboidrati-insulina (CIM), il quale ribalta il nesso di causalità: non è l’eccesso calorico a portare l’aumento di peso, ma è l’aumento di deposizione di grasso nel corpo (derivante dalle risposte ormonali a diete ad alto tasso glicemico) a indurre un apporto energetico eccessivo. Proprio come accade per gli adolescenti, non è il cibo aggiuntivo a indurre lo scatto di crescita, bensì la fame generata dallo scatto a portare il ragazzo a ingerire più calorie.
In sintesi, il modello carboidrati-insulina mostra come, quando mangiamo carboidrati altamente trattati, il corpo produce più insulina e sopprime la produzione di glucagone. Questo costituisce un segnale per le cellule adipose a immagazzinare più calorie, lasciandone una minore quantità a disposizione per muscoli ad altri tessuti. Il segnale che arriva al cervello è quello di non star ricevendo energia sufficiente, il che si traduce nella percezione di fame.
Secondo il modello carboidrati-insulina, dunque, seguire la strategia di produrre un apporto calorico negativo (assumere meno calorie di quante se ne consumino) attraverso il controllo della quantità di cibo insieme all’aumento dell’attività fisica, non porta a nessun risultato in termini di perdita di peso. Limitare l’apporto energetico consumando cibi ad alto carico glicemico né fa diminuire la predisposizione all’accumulo di grasso, né controlla la sensazione di fame durante la dieta. Al contrario, la riduzione di peso prodotta dalla limitazione dei carboidrati nella dieta è capace di ridurre il rapporto insulina-glucagone, supportando la lipolisi e l’ossidazione dei grassi, inducendo così una minore assunzione di cibo in maniera spontanea.