Il ruolo dei dati per una vera rivoluzione in sanità


Articolo
Giusy Massaro
rivoluzione

La telemedicina, ossia la possibilità di assistere i pazienti a distanza tramite un device, rappresenta una vera e propria rivoluzione in ambito sanitario. Tecnicamente, oggi è possibile effettuare una tele-visita, un tele-consulto, tanto quanto una tele-refertazione, una tele-diagnosi o un tele-monitoraggio. Ormai esiste anche un mercato delle terapie digitali, ovvero interventi terapeutici che, grazie a software avanzati, consentono di prevenire, gestire o trattare condizioni fisiche, mentali e comportamentali della persona: è il caso di malattie croniche come l’ipertensione e il diabete, di quelle mentali come la depressione e l’ansia, ma anche di quelle che compromettono la qualità del sonno e delle dipendenze da fumo o altre sostanze. Un mercato da cui l’Italia è ben lontana, sebbene l’Istituto superiore di sanità e l’Agenzia italiana del farmaco stiano approfondendo il tema al fine di approvare la commercializzazione delle terapie digitali.

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha reso evidente come l’innovazione in ambito sanitario non sia più un’opzione, ma una necessità. Se è vero che il Covid-19 ha provocato un’impennata nell’utilizzo degli strumenti di telemedicina, si è anche dovuto prendere atto di quanto inefficace possa essere un utilizzo improprio delle tecnologie.

La rete assistenziale del Servizio sanitario nazionale – come evidenziato dal recente Policy Brief dal titolo “Il valore dei dati in sanità. Gli strumenti per la programmazione nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” recentemente pubblicato dall’Istituto per la Competitività (I-Com) – necessita senza dubbio una riorganizzazione, sicuramente in termini di aumento di efficienza e qualità delle prestazioni. Un sistema in grado di utilizzare i dati sanitari va in questa direzione, consentendo anche di rafforzare l’assistenza territoriale, con una maggiore capacità di presa in carico precoce dei pazienti e una migliore programmazione nel medio e lungo periodo dell’assistenza al paziente. Insomma, oggi è possibile curare e fare medicina con i dati, ma solo se sono fruibili e interconnessi. Occorre, dunque, aggregare i dati dei pazienti e per farlo bisogna renderli interpretabili e interoperabili: in altre parole, integrare le piattaforme informatizzate e reingegnerizzare tutti i processi pubblici.

IL CONTESTO DI RIFERIMENTO E GLI OBIETTIVI DEL GOVERNO

Il Patto per la sanità digitale del 2016 ha riconosciuto l’innovazione digitale come fattore abilitante (e determinante) nella riorganizzazione della rete assistenziale del Servizio sanitario pubblico.

Sono cinque gli obiettivi che il ministero della Salute si propone di raggiungere con l’attuazione della sua strategia di digitalizzazione del Servizio sanitario nazionale: l’analisi dei dati a supporto di governance e ricerca, l’accesso ai servizi attraverso il digitale, la connettività e l’interoperabilità attraverso un aggiornamento costante dei dati sanitari e facendo sì che i sistemi utilizzati “comunichino” tra loro, la diffusione a tappeto di conoscenze e competenze digitali sia tra gli operatori che tra i cittadini e, infine, la protezione della sicurezza dei dati, conditio sine qua non per una strategia di successo.

Grazie all’enorme patrimonio informativo di cui dispone, il Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS) creato per dare attuazione al patto potrebbe rappresentare la base delle metodologie predittive del bisogno di salute in termini di fabbisogni, prestazioni, risorse umane ed economiche. Tuttavia, per una vera data-driven healthcare, occorrerebbe incrociare i dati sanitari con altri indicatori, relativi ad esempio a fattori socio-economici, allo stato in vita degli assistiti e alle cause della mortalità. Ma, ad oggi, i vincoli normativi esistenti hanno impedito l’integrazione tra i flussi informativi sanitari del NSIS e quelli dell’Istat.

La capacità di raccogliere grandi quantità di dati, di farli “dialogare” e di saperli interpretare, unitamente all’interoperabilità dei sistemi informativi e informatizzati, costituisce senza dubbio la chiave di volta della rivoluzione digitale in ambito sanitario e richiede un controllo nazionale e centralizzato dei dati raccolti a livello regionale. Ma ci sono altri aspetti e altre sfide che, se non affrontate, rischiano di frenare (se non impedire) la realizzazione di tutto ciò.

LE CRITICITÀ

Tra gli aspetti più critici, c’è sicuramente quello delle competenze digitali dei professionisti sanitari, oggi insufficienti per cavalcare i nuovi trend della rivoluzione tecnologica. Se buona parte dei medici specialisti e dei medici di medicina generale ha sufficienti competenze digitali di base (Digital Literacy) legate all’uso di strumenti digitali nella vita quotidiana, sono pochissimi quelli con un livello soddisfacente in tutte le aree delle competenze digitali professionali (eHealth Competences). Non ci si può, quindi, dimenticare che la trasformazione digitale in ambito sanitario passa anche per una formazione continua dei professionisti sanitari, che consenta di implementare l’uso dei dati per finalità terapeutiche e di ricerca.

Inoltre, l’asset principale per la raccolta dei dati sui pazienti, il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), è ancora troppo poco sfruttato: i fascicoli, seppur attivati per quasi tutta la popolazione, sono spesso incompleti, privi delle informazioni e dei documenti più utili a medici e pazienti e ancora poco conosciuti e utilizzati dagli italiani. Nonostante gli sforzi compiuti per migliorare l’interoperabilità dei fascicoli sanitari e lo scambio di informazioni su tutto il territorio nazionale – per cui è stata introdotta l’Infrastruttura Nazionale per l’Interoperabilità tra i FSE regionali (INI) – a oggi la frammentazione del patrimonio informativo dei pazienti è ancora troppa e molte sono le differenze non solo tra le regioni, ma anche tra strutture sanitarie che operano all’interno dello stesso territorio.

E così, a dieci anni dalla sua istituzione, nonostante siano stati attivati quasi 57,5 milioni di Fascicoli Sanitari Elettronici, il reale utilizzo di questo strumento è tutt’altro che entusiasmante: è abbastanza diffuso tra i medici di molte delle regioni del Nord (oltre che in Sardegna e Puglia), ma molto meno tra i cittadini, con un grado di utilizzo totale solo in Sardegna e buono in Emilia Romagna (90%) e Veneto (77%). Disastrosa appare, poi, la situazione in alcune regioni, quali Campania, Basilicata e Abruzzo, dove nessun medico abilitato risulta aver fatto uso del FSE e nessun cittadino lo ha utilizzato negli ultimi 90 giorni. Nullo, in queste regioni, anche il dato relativo alle aziende sanitarie, a eccezione della Campania, dove solo il 2,7% di esse risulta aver alimentato il fascicolo: un dato comunque allarmante.

Fonte: https://www.fascicolosanitario.gov.it/it/monitoraggio/bc

Il mancato successo ha a che fare sicuramente con l’organizzazione della sanità su base regionale, il che ha portato a una sua sostanziale difformità attuativa. A ciò si aggiunga la scarsa attenzione da parte dei medici: sono ben 6 le regioni in cui nessun medico lo ha mai utilizzato. Il risultato? Buona parte dei cittadini non è nemmeno a conoscenza del Fascicolo Sanitario Elettronico. Complice, sicuramente, anche il digital divide, sia dal lato dei cittadini che dal lato del sistema.

Altro tema rilevante è quello della privacy, il rispetto della quale è elemento imprescindibile per creare un sistema in sinergia e, soprattutto, un clima di fiducia da parte della popolazione, trattandosi di dati personali. Trovare il corretto bilanciamento tra due diritti fondamentali particolarmente esposti all’evoluzione della tecnologia non è cosa da poco. Occorre, in questo senso, un progetto organico e lungimirante di governance che promuova una condivisione selettiva dei dati ma con le dovute cautele (per evitare l’identificazione degli interessati) e che minimizzi i rischi cyber, tenendo bene a mente come il rischio informatico possa tradursi in uno clinico, per esempio nel caso di basi di dati alterate in grado di rendere sbagliata la diagnosi. È proprio di questi giorni uno studio sulle criticità del settore sanitario, condotto dalla società di Cyber Security Swascan, dal quale emerge come il 60% delle aziende sanitarie oggetto di studio fosse a rischio di furto di dati sensibili.

IL PNRR SULLA SANITÀ DIGITALE

La telemedicina è entrata nell’agenda dei decisori politici. Alla Salute è infatti dedicata la Missione 6 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il piano stanzia 15,63 miliardi in totale per le due componenti M6C1 “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” e MC62 “Innovazione, ricerca e digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale”. Nell’ambito di questa seconda componente, in particolare, vengono destinati 1,67 miliardi di euro al rafforzamento dell’infrastruttura tecnologica e degli strumenti per la raccolta, l’elaborazione, l’analisi dei dati e la simulazione. Si tratta, in pratica, della valorizzazione del Fascicolo Sanitario Elettronico (attraverso l’integrazione, l’interoperabilità e la standardizzazione) e l’infrastrutturazione tecnologica del ministero della Salute per migliorare la raccolta dei dati e la capacità predittiva, da un lato, e creare una piattaforma di domanda/offerta di servizi di telemedicina, dall’altro.

Al primo progetto sono destinati 1,38 miliardi di euro mentre al secondo 290 milioni. E ben venga, in un contesto in cui la digitalizzazione sanitaria ha sempre viaggiato a braccetto con la clausola di invarianza finanziaria, ossia assenza di nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Causa (ma solo in parte!) dell’arretratezza digitale della sanità nel nostro Paese.

In conclusione, se da un lato la pandemia ha accelerato il processo di digitalizzazione a livello mondiale, dall’altro, specie nel nostro Paese, ha accentuato le differenze tra le diverse regioni sull’adozione di strategie e digitalizzazione. Tecnologie quali i Big Data, l’intelligenza artificiale e il machine learning, insieme a un adeguato grado di diffusione della digitalizzazione, hanno invece le potenzialità per ridurre considerevolmente le disuguaglianze, aumentando il benessere della collettività e implementando nuovi modi di offrire servizi accessibili a tutti e in tempi rapidi. Questo è ancor più vero per l’ambito sanitario, ma è al contempo anche tanto più complicato da mettere in pratica, per via della complessità delle diverse strutture dei sistemi sanitari, dei diversi modelli di finanziamento e delle molteplici parti interessate.

Non bisogna, quindi, pensare che l’adozione tecnologica, da sola, sia la soluzione a tutti i mali. La vera urgenza sta nel cambiare approccio, superando la logica finora adottata di interventi di digitalizzazione frammentari, locali e sconnessi e passando a una logica di ecosistema che incentivi davvero la collaborazione di tutti gli attori, cittadino incluso. Il primo passo è riconoscere la centralità del dato clinico e, poiché i dati socio-sanitari sono e continueranno a essere creati da più fonti, pietra miliare di questa trasformazione digitale non può che essere la piattaforma di gestione, sulla cui interoperabilità, scalabilità e sicurezza occorre investire tutte le risorse necessarie. Senza tralasciare la necessità di una campagna di sensibilizzazione all’uso degli strumenti esistenti che combatta la resistenza al cambiamento, tipica dei cittadini italiani, che faticano molto, specie quando si parla di salute, a passare da un approccio “fisico” a uno a distanza.

Research Fellow dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata all’Università Commerciale L. Bocconi in Economia, con una tesi sperimentale sull’innovazione e le determinanti della sopravvivenza delle imprese nel settore delle telecomunicazioni.

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