Obbligo vaccinale, i punti su cui bisogna fare chiarezza


Articolo
Eleonora Mazzoni

Vaccinare contro il Covid-19 la popolazione attualmente scoperta diventa sempre più difficile. La campagna rallenta e mentre imperversa lo scontro politico sull’obbligo vaccinale circolano informazioni incomplete che contribuiscono ad alimentare l’incertezza. Ma qual è la ratio alla base di un obbligo vaccinale? All’interno di quali confini si muove? E in che modo è legata alle valutazioni degli enti regolatori? Cerchiamo di fare chiarezza.

Secondo gli ultimi dati disponibili, l’83,07% della popolazione italiana sopra ai dodici anni ha completato il ciclo vaccinale. L’obiettivo iniziale indicato dal commissario Francesco Paolo Figliuolo (il raggiungimento dell’80% entro fine settembre) è stato quindi raggiunto, ma nel frattempo l’asticella è stata spostata più in alto per colpa della più contagiosa variante Delta. Dal ministero della Salute è allora arrivato un nuovo obiettivo di copertura pari ad almeno il 90% di immunizzati. Da qui la graduale estensione dello strumento del Green pass a cui abbiamo assistito e pure l’ipotesi, paventata dal presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi all’inizio di settembre, di rendere obbligatorio il vaccino anti-Covid. Due questioni, queste ultime, che hanno sollevato più o meno consapevoli dubbi di legittimità relativi all’imposizione di un limite alla libertà individuale. A riguardo, tuttavia, sono circolate informazioni imprecise e spesso fuorvianti.

Innanzitutto bisogna riflettere sulla definizione di “obbligo vaccinale“, sulla sua storia e sulla sua funzione socio-sanitaria. L’obbligo vaccinale è più antico della Costituzione italiana e in Europa è nato all’inizio dell’ottocento, con la diffusione della vaccinazione contro il vaiolo in Inghilterra. In Italia l’obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa è iniziata nel 1888, è stata sospesa nel 1977 per poi essere abolita solo nel 1981. Nel frattempo erano diventate obbligatorie le vaccinazioni contro la difterite, la poliomielite, il tetano e l’epatite B. Senza andare troppo lontano, il decreto legge del 7 giugno 2017 numero 73, poi convertito in legge, ha previsto dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori di età fino a sedici anni (per quattro di esse l’obbligatorietà è soggetta a revisione ogni tre anni). Tra le altre cose, il rispetto degli obblighi vaccinali è un requisito per l’ammissione all’asilo nido e alle scuole dell’infanzia per i bambini fino a 6 anni.

Nonostante i progressi nelle attività di immunizzazione, gli sforzi per eliminare le malattie prevenibili con i vaccini si sono scontrati con molti ostacoli. Fra tutti il rifiuto delle vaccinazioni, che tipicamente aumenta al ridursi dell’incidenza di una malattia, rendendo più difficile l’ultimo miglio da percorrere. Anche per questo, oltre alle campagne di informazione e divulgazione si fa spesso ricorso all’introduzione di un obbligo vaccinale, che è usualmente un obbligo relativo, come recentemente spiegato in un interessante articolo pubblicato su il Post.

Questo significa che non viene imposto in maniera coatta, ma l’importanza delle attività per cui è richiesto è tale per cui diventa un requisito e/o sottopone gli inadempienti a eventuali sanzioni. A permetterlo è l’articolo 32 della Costituzione che, al secondo comma, sancisce che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (che la legge non può comunque violare mai i limiti imposti dal rispetto della persona umana). La Corte costituzionale, con la sentenza numero 307 del 1990, ha poi sancito che la legge che impone un trattamento sanitario non è incompatibile con la Costituzione, purché il sia volto non solo a migliorare o tutelare la salute di chi lo riceve ma anche a preservare quella degli altri: “E’ proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale“. Quindi, se è vero che la pandemia da Covid-19 costituisce una grave emergenza sanitaria e che i vaccini sono efficaci e sicuri, allora dal punto di vista etico nulla osta a un qualche tipo di obbligo vaccinale, di cui peraltro lo strumento del Green pass è di fatto già espressione.

È proprio sull’efficacia e sulla sicurezza dei vaccini che si fonda una delle convinzioni alla base dell’impossibilità di introdurre, o rafforzare, l’obbligo della vaccinazione contro il Covid-19. Negli ultimi mesi è circolata la notizia che per poter diventare obbligatorio il vaccino dovrà anzitutto essere dichiarato dall’Agenzia europea del farmaco (EMA) non più farmaco emergenziale ma ordinario. Si tratta in realtà di un’affermazione sbagliata sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale.

I vaccini attualmente in circolazione in Europa sono disponibili grazie al rilascio da parte di EMA di quella che si chiama “autorizzazione all’immissione in commercio condizionata” (CMA), che nulla ha a che vedere con l’autorizzazione in circostanze eccezionali (c.d. emergenziale). La CMA certifica che la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino sono comprovate e che i benefici del vaccino sono superiori ai rischi, ma agli sviluppatori è consentito di presentare dati supplementari anche dopo averla ricevuta. La CMA garantisce tutti i controlli di farmacovigilanza e di fabbricazione, che sono giuridicamente vincolanti e sono valutati periodicamente dai comitati scientifici dell’EMA fino alla conversione in autorizzazione standard. Un’autorizzazione in emergenza, invece, di fatto consente l’uso temporaneo di un farmaco non autorizzato quando non è possibile ottenere dati completi e normalmente non si traduce in una autorizzazione standard.

Dal 2006 al 2016 l’EMA ha rilasciato 30 autorizzazioni al commercio condizionate, la maggior parte di esse (17) per farmaci oncologici. In media una CMA viene convertita in un’autorizzazione standard entro 4 anni e lo scopo di questo strumento è proprio quello di rendere più veloce, ma altrettanto sicuro, l’accesso ai medicinali per malattie gravemente debilitanti o mortali, per combattere le minacce alla salute pubblica, o per curare le malattie rare. Se così non fosse anche lo strumento del Green pass non troverebbe la sua ragione d’essere né la sua legittimazione.

Ciò che resterà da discutere, quindi, è la modalità di un eventuale provvedimento che integri, modifichi o sostituisca l’obbligo a oggi intrinseco nello strumento della certificazione verde. Non sarà di certo l’intervento di EMA sulla conversione dell’autorizzazione in commercio a dettarne le regole. Il suo ruolo sarà piuttosto quello di fornire indicazioni aggiornate, proprio alla luce dei dati raccolti, sulla durata della protezione e sulle categorie prioritarie da tutelare, permettendo agli Stati membri di tradurre tali informazioni in strumenti adeguati al proprio territorio e alla propria popolazione.

Direttore Area Innovazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Economia Politica presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, con una tesi sperimentale sulla scomposizione statistica del differenziale salariale tra cittadini stranieri ed italiani.

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