Con il decreto legislativo dell’8 novembre 2021, numero 177 è stata finalmente recepita la direttiva numero 790 del 2019. Si tratta di un decreto che rispetto alle scelte connesse alla trasposizione dell’articolo 15 (e del 17, di cui non si tratterà tuttavia in questa sede) ha suscitato nei mesi scorsi un ampio dibattito: da un lato coloro che hanno denunciato eccessi di delega, sviamenti rispetto agli obiettivi fissati dalla direttiva, effetti anticoncorrenziali, violazione del principio dell’autonomia negoziale e della libertà d’impresa. Dall’altro lato, invece, c’è chi ha sostenuto che le scelte proposte nello schema di decreto sottoposto a parere parlamentare fossero la legittima espressione della discrezionalità di cui gode ciascuno Stato membro in sede di recepimento di una direttiva. In questo senso è stata inoltre sottolineata la capacità del modello proposto di bilanciare le posizioni dei prestatori di servizi della società dell’informazione e degli editori. Sebbene siano stati molti i rilievi formulati nel corso della procedura di adozione del decreto di recepimento, finanche a opera delle Camere nei rispettivi pareri, il testo proposto dal governo non è stato oggetto di alcuna modifica.
Quali sono le ragioni di questo enorme dibattito? Perché il modello italiano appare un unicum in Europa? E quali sono le divergenze (se ce ne sono) rispetto alla disciplina comunitaria?
L’articolo 15 della direttiva ha prescritto agli Stati membri di riconoscere agli editori di giornali stabiliti in uno Stato membro i diritti di cui all’articolo 2 e all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2001/29/CE per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione. Si tratta dunque del diritto di autorizzare o vietare la riproduzione e la distribuzione che tale direttiva riconosce, tra gli altri, agli autori in relazione alle loro opere. La direttiva numero 790 del 2019 esclude, tuttavia, l’applicabilità di tali diritti agli utilizzi privati o non commerciali da parte di singoli utilizzatori, ai collegamenti ipertestuali e all’utilizzo di singole parole o di estratti molto brevi. La stessa disposizione prescrive agli Stati membri di prevedere disposizioni che permettano agli autori di ricevere una quota adeguata dei proventi incassati dagli editori per l’utilizzo delle loro pubblicazioni da parte dei prestatori di servizi di condivisione di contenuti online e, dunque, da soggetti il cui scopo principale è quello di memorizzare e dare accesso al pubblico a grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti, che il servizio organizza e promuove a scopo di lucro.
I diritti descritti si estinguono due anni dopo la pubblicazione del documento di carattere giornalistico, calcolando il citato termine a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo alla data di pubblicazione.
Se queste erano le indicazioni contenute nella direttiva, evidentemente la scelta italiana sembra essere andata in una direzione in parte diversa. Il decreto legislativo di recepimento ha introdotto nella legge numero 633 del 1941 l’articolo 43 bis che, dopo aver definito la pubblicazione di carattere giornalistico e i suoi editori ai quali attribuisce diritti esclusivi di riproduzione e comunicazione (con esclusione degli utilizzi privati o non commerciali di pubblicazioni giornalistiche da parte di singoli utilizzatori, dei collegamenti ipertestuali o di utilizzo di singole parole o di estratti molto brevi definiti come “qualsiasi porzione di pubblicazione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità”), ha previsto la corresponsione a questi ultimi da parte dei prestatori di servizi delle società dell’informazione, delle società di monitoraggio media e rassegne stampa, di un equo compenso per l’utilizzo online delle pubblicazioni di carattere giornalistico disegnando una procedura di negoziazione di tale compenso che coinvolge anche l’Agcom.
A quest’ultima, in particolare, è rimessa l’adozione di un apposito regolamento che individui i criteri per la determinazione dell’equo compenso, individuando come elementi di valutazione il numero di consultazioni online dell’articolo, gli anni di attività, la rilevanza sul mercato dell’editore e il numero di giornalisti impiegati, i costi sostenuti per investimenti tecnologici e infrastrutturali da entrambe le parti e dei benefici economici derivanti, a entrambe le parti, dalla pubblicazione quanto a visibilità e ricavi pubblicitari. Fermo restando il diritto ad adire l’autorità giudiziaria, è riconosciuta alle parti (decorsi 30 giorni dalla richiesta di avvio dei negoziati senza aver raggiunto un accordo sull’ammontare del compenso) la facoltà di rivolgersi all’Agcom che è chiamata – entro 60 giorni dalla richiesta – a valutare le proposte economiche formulate dalle parti ovvero, qualora non ritenute entrambe conformi a quanto previsto nel relativo regolamento, a fissare d’ufficio l’ammontare dell’equo compenso.
In mancanza di accordo dopo la decisone di Agcom, ciascuna parte può adire l’autorità giudiziaria (con la precisazione che l’eventuale ingiustificata limitazione dei contenuti degli editori nei risultati di ricerca nel periodo di negoziazione può essere valutata ai fini della verifica dell’obbligo di buona fede). Rispetto alla procedura di quantificazione dell’equo compenso, la norma proposta sancisce l’obbligo per i prestatori di servizi della società dell’informazione di mettere a disposizione, su richiesta della parte interessata o di Agcom, i dati necessari a determinare la misura dell’equo compenso entro 30 giorni dalla richiesta, pena una sanzione fino all’1% del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio chiuso precedentemente alla notifica della contestazione (con esclusione del beneficio del pagamento in misura ridotta). A tale prescrizione corrisponde un obbligo di riservatezza a carico dell’editore rispetto alle informazioni apprese. Rispetto agli autori, lo schema riconosce loro il diritto a ricevere una quota tra il 2 e il 5% dell’equo compenso percepito, da concordare su base convenzionale nel caso di lavoratori autonomi o rimesso anche alla contrattazione collettiva nel caso di dipendenti.
Dopo lunghe discussioni e richieste di modifica, il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale ricalca esattamente lo schema inizialmente proposto dal governo, rispetto al quale molte erano state le perplessità avanzate dai vari stakeholders ed esperti di diritto che avrebbero forse meritato maggior approfondimento in sede di adozione del testo definitivo.
In particolare, sarebbe stato opportuno chiarire il disposto normativo e fugare i dubbi – che ancora permangono irrisolti – circa l’affermazione di un obbligo a contrarre che per niente si concilia con il principio di autonomia negoziale e libertà d’impresa che rappresentano alcuni dei fondamenti del nostro ordinamento. Né con il tradizionale contenuto dei diritti di esclusiva che, come noto, garantiscono all’autore che ogni attività di riproduzione o di messa a disposizione del pubblico delle sue opere possa avvenire solo con la sua preventiva autorizzazione senza tuttavia poter giungere ad attribuirgli il diritto di imporre a terzi di raggiungere un accordo contrattuale, né tantomeno di assicurarsi un “equo compenso”.
Senza contare poi il fatto che editori e autori, anche se titolari dei medesimi diritti di esclusiva, sarebbero nell’impossibilità, nel secondo caso, di beneficiare di un obbligo a contrarre imposto alle controparti che i primi si sono visti attribuire. Certamente è affascinante la teoria che definisce come meccanismo arbitrale la procedura disegnata dal decreto, che ruota intorno ad Agcom e che perseguirebbe il fine di riequilibrare le posizioni e favorire la composizione degli interessi degli editori e dei prestatori trovando piena garanzia nella possibilità per le parti di adire l’autorità giudiziaria.
Allo stesso modo irrisolta rimane la questione relativa al potenziale effetto anticoncorrenziale discendente dai criteri per la quantificazione dell’equo compenso, che avrebbero dovuto forse avere di mira il destinatario ultimo delle tutele apprestate dal diritto d’autore e, dunque, gli autori e non concentrarsi su aspetti come il numero di consultazioni online dell’articolo, gli anni di attività e la rilevanza sul mercato dell’editore eccetera, che evidentemente potrebbero tradursi in un favore per gli editori più grandi e storicamente affermati.
Permane poi immutata la possibilità per gli editori di conoscere, nell’ambito della procedura volta alla definizione dell’equo compenso, dati e informazioni dei prestatori molto delicati commercialmente. Unico presidio, la previsione di un generico obbligo di riservatezza la cui efficacia appare più teorica che pratica.
Dopo molti mesi di discussione e un ritardo che è valso all’Italia l’avvio di una procedura di infrazione, ci troviamo dunque di fronte a un quadro normativo che nel condivisibile obiettivo di correggere squilibri tra le parti e perseguire in maniera efficace la tutela del diritto d’autore, rischia invece di tradursi in aggravi sproporzionati e ingiusti nei confronti dei prestatori e in interventi potenzialmente lesivi delle dinamiche concorrenziali. La palla passa ora all’Agcom, chiamata ad adottare il regolamento necessario per lo svolgimento della procedura di quantificazione dell’equo compenso e, poi, probabilmente, alla Corte Costituzionale, che potrebbe essere chiamata a verificare la legittimità costituzionale del decreto legislativo di recepimento della direttiva copyright.