Nonostante l’ondata di investimenti nei diversi campi del digitale, continuano a mancare professionisti e specializzandi in grado di cogliere pienamente e rapidamente le opportunità lavorative ed economiche derivanti dai cambiamenti radicali degli ultimi anni. Si chiama “digital mismatch lavorativo“, un fenomeno che sta portando le aziende a cercare professionisti all’estero e che rischia di far saltare i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a causa della carenza di manodopera specializzata. Il nodo della questione sembra essere nel sistema dell’istruzione e della formazione, dove i numeri dei laureati nelle materie Stem e Ict rivelano un quadro complessivo con scarsi miglioramenti e con valori medi ancora estremamente esigui rispetto agli standard europei.
PNRR E GLOBALIZZAZIONE: COMPETENZE DIGITALI CERCASI
In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, le competenze digitali non sono solo uno dei pilastri di democrazia e connettività, ma anche una delle chiavi per la garanzia di competitività professionale e lavorativa a livello internazionale. L’attenzione su questo tema è ormai più che ventennale, con piani di investimenti volti alla formazione di esperti e tecnici diventati gradualmente sempre più consistenti e strutturati. È stato tuttavia lo shock della crisi pandemica, insieme all’ingente quantitativo di investimenti europei e nazionali destinati alla cosiddetta rivoluzione digitale, ad aver generato una spinta propulsiva decisiva per una piena considerazione di tali temi con riferimento tutte le fasce della popolazione. Nel Pnrr è previsto che circa 40 miliardi dei finanziamenti destinati all’Italia siano dedicati proprio al campo della transizione digitale, la seconda voce di spesa più consistente di tutto il piano di investimenti per la ripresa. Di questi, ben sette sono specificatamente destinati al settore del capitale umano. Le numerose attività trasferite su piattaforme digitali, sommate alla grande mole di dati dal valore sempre maggiore, hanno reso urgente la reperibilità di professionisti e specializzati non solo per la diffusione e applicazione delle tecnologie abilitanti (intelligenza artificiale, Internet of Things, Cloud), ma anche per la sicurezza nel trattamento di dati e transizioni digitali.
IL DIGITAL DIVIDE IN ITALIA
La scarsa propensione alla tecnologia e al digitale della popolazione italiana è ormai un fenomeno abbastanza noto. Negli ultimi dati DESI (Digital Economy and Society Index), risalenti al 2020 (quindi utili ad avere un quadro comparativo pre-pandemico della situazione), l’Italia risultava al 25° posto tra i 27 Stati membri dell’Unione europea nella classifica complessiva sulla digitalizzazione dell’economia e all’ultimo posto in termini specifici di capitale umano e della società con un impressionante 17% della popolazione che dichiarava di non aver mai navigato in rete (contro una media europea del 9%).
Grave è anche il quadro relativo alle fasce professionali e specializzate: secondo i dati Eurostat, nel 2020 circa il 48% della forza lavoro non possedeva competenze digitali almeno di livello base e soltanto il 15% delle imprese italiane ha offerto occasioni di formazione e accrescimento delle competenze Ict ai propri dipendenti.
Ma il digital divide è di dimensioni preoccupanti anche tra le giovani generazioni, soprattutto nel periodo di transizione dalle scuole superiori alla formazione universitaria e professionalizzante, dove non sembrano esserci ancora le spinte necessarie per rendere attrattivi i corsi Stem e Ict. Secondo quanto riportato nel “Primo rapporto di monitoraggio del piano operativo per la Strategia nazionale per le competenze digitali”, il numero di studenti iscritti a percorsi di istruzione terziaria a ciclo breve nell’ambito Stem è pari all’1,3% del totale dei diplomati (+0,2% tra il 2018 e il 2019) contro l’8,3% a livello Ue-27 (+1,5% nello stesso periodo). Mentre la quota di studenti in uscita dalla scuola secondaria che intraprendono percorsi universitari in ambito Ict è addirittura diminuita tra il 2019 e il 2020, attestandosi all’1,28%, un valore ben distante dalla media europea del 3,13%.
LA CRISI DELLE LAUREE STEM e ICT
L’evidente ritardo accumulato nei campi della formazione sulla conoscenza del digitale trova riscontro anche nel dato relativo al numero di laureati nelle materie scientifiche, matematiche e tecnologiche, anch’esso riportato nell’indice Desi 2021. Spicca, purtroppo in negativo, il risultato delle lauree scientifiche e, soprattutto, quello relativo ai laureati in corsi di materie collegate a informatica, elettronica, telecomunicazioni per il quale l’Italia presenta la percentuale più bassa tra tutti i paesi EU-27. Queste ultime, che in termini assoluti contavano poco meno di 5.000 laureati nel 2020, rappresentavano l’1,3% del totale dei laureati contro una media europea del 3,8%. Se allarghiamo lo sguardo alle materie Stem nel loro insieme, i dati del ministero dell’Università e della Ricerca riportano che i laureati in questi campi nel 2020 erano il 27% rispetto al totale delle lauree rilasciate in Italia. Un dato che, contrariamente alle tendenze europee, non ha visto forti incrementi negli ultimi anni, rimanendo sostanzialmente stabile dal 2018. In termini assoluti, i laureati Stem nel 2020 erano circa 93.000, il 31% dei quali in materie del gruppo scientifico e matematico e il 5% in tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict), con la maggioranza ancora concentrata tra ingegneria e architettura.
I DATI ALMALAUREA 2022 CONFERMANO IL GENDER GAP
Se gli uomini italiani iscritti ai corsi di studio scientifici e tecnologici sono già un numero esiguo rispetto ai loro coetanei europei, le donne sono persino meno. La situazione già critica della diffusione di competenze digitali nei settori dell’istruzione presenta dunque un’ulteriore aggravante data da un preoccupante (e persistente) divario di genere: secondo i dati ministero dell’Università e della Ricerca, nell’anno accademico 2020-2021 le donne immatricolate in corsi di laurea Stem erano solo il 21% sul totale delle studentesse, a fronte del doppio dei colleghi maschi (42%).
Come confermato anche da AlmaLaurea nell’ultimo rapporto annuale “Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali” (2022) , le donne, seppur dimostrando migliori performance pre-universitarie e provenendo più di frequente da percorsi liceali, nelle scelte formative si rivolgono meno frequentemente verso queste discipline. I dati presentati nel Rapporto, che sono sostanzialmente in linea con quelli ministero dell’Università e della Ricerca, indicano che nel 2020 ha conseguito il titolo in percorsi Stem circa il 18,9% del totale delle laureate, mentre tra gli uomini il valore corrispondente si sarebbe assestato al 39,2%. Ancora più risicata, invece, è la la quota di studentesse che intraprendono percorsi universitari in ambito Ict, pari allo 0,3% contro una media europea del 1,12%.
Una notizia più rassicurante viene dal dato relativo al divario di genere tra gli studenti e le studentesse in uscita dalla scuola secondaria che intraprendono percorsi universitari Stem che, oltre a presentare un calo annuo dello 0,4%, registra valori migliori rispetto a quello medio europeo (rispettivamente del 7,4% contro 13,9).
Anche nella formazione post-laurea si rileva una bassa concentrazione femminile in questo ambito. AlmaLaurea, riportando i dati della Commissione europea, ha rivelato che nel 2016 tra gli adulti in possesso di un dottorato di ricerca nel campo Ict la quota di donne era il 25%, in engineering, manufacturing and construction il 37% e in scienze naturali il 53%. Lievemente più rassicuranti i dati 2022 relativi ai profili dei dottori di ricerca 2020, che mostrano un assottigliamento del divario di genere italiano con risultati in linea con i dati europei: le donne in ambito Stem sono il 43,8%. Un dato indicativo del fatto che nel passaggio dalla laurea al dottorato cresce sensibilmente la quota di donne in tali ambiti.
IL MISMATCH LAVORATIVO
Secondo il rapporto AlmaLaurea, gli studenti provenienti da percorsi Stem hanno dimostrato buone performance alla prova del mercato del lavoro. Se consideriamo i laureati di secondo livello (circa l’85% non si ferma alla triennale), ad un anno dal conseguimento del titolo il tasso di occupazione è pari all’80%, un valore molto più elevato rispetto al 68,1% osservato sul complesso dei laureati di secondo livello. Anche in questo caso, però, si evidenzia un considerevole differenziale di genere pari al 9,3% a favore della componente maschile (83,9% contro 74,6%).
Sebbene le prospettive di lavoro siano incoraggianti, il limitato numero di studenti nei percorsi specialistici nel campo dell’Ict e, in generale, delle materie Stem, porta il nostro Paese ad avere una sostanziale carenza di professionisti del settore. Secondo il report di Anpal-Unioncamere, i campi ingegneristici e informatici sarebbero tra i corsi di studi universitari più richiesti in ambito lavorativo per i prossimi cinque anni, con circa il 62% delle aziende che già oggi fatica a reperire specialisti in scienze matematiche e informatiche, e circa il 55% che non riesce a trovare un numero sufficiente di tecnici informatici, telematici e delle telecomunicazioni. Oltre ai laureati, mancherebbero anche figure tecniche (la metà delle aziende intervistate ha dichiarato difficoltà a reperire diplomati ITS), in particolare nel mondo delle telecomunicazioni.
Questo squilibrio già considerevole tra il fabbisogno e numero di laureati e specializzati nel settore si prevede possa persino crescere ulteriormente nei prossimi anni a fronte del boom di investimenti nel comparto, fino a raggiungere di un mismatch annuale di circa 1.200 persone.
LE RISPOSTE DEL PNRR
Questo considerevole squilibrio è un elemento di preoccupazione anche all’interno del Pnrr, non solo per la crescita e la competitività del nostro Paese nel medio e lungo termine, ma anche per la realizzazione tempestiva dei progetti che devono essere inderogabilmente ultimati entro il 2026.
Sono pertanto previsti nuovi finanziamenti per l’istituzione di ulteriori bandi mirati a incrementare il numero di dottorandi in nuove tecnologie (240 milioni di euro) e per l’ampliamento dell’offerta accademica nel settore delle tecnologie digitali. Inoltre, sono state previste eventuali collaborazioni con altri Paesi dell’Unione (500 milioni di euro) e l’aggiornamento dei curricula universitari.
Parallelamente agli impegni della Strategia nazionale per le competenze digitali, che prevede il raggiungimento di ambiziosi obiettivi specifici entro il 2025, con il Pnrr l’Italia dovrebbe inoltre varare un nuovo programma che mira a fornire una “alfabetizzazione digitale” di base a un vasto numero di cittadini. Nello specifico, ci sono piani a sostegno di lavoratori disoccupati attraverso la formazione in materia di competenze digitali e per il potenziamento delle competenze digitali dei dipendenti del settore pubblico, inclusi medici e insegnanti, attraverso corsi online sulle competenze chiave.