Non è più in questione che le fonti energetiche rinnovabili (FER) saranno il fattore trainante del raggiungimento dell’obiettivo zero emissioni al 2030. L’emancipazione dal fossile, tuttavia, non procede alla velocità sperata: dinnanzi alle lentezze della cooperazione internazionale e alle pressanti preoccupazioni di sicurezza energetica, si cercano alternative in grado di gestire e contenere l’impatto dei settori hard to abate. La via più promettente include le varie tecniche di cattura e stoccaggio del carbonio (in inglese, carbon capture and storage – CCS), che hanno lo scopo di intercettare la CO2 e di immagazzinarla in un luogo sicuro, lontano dall’atmosfera terrestre. Una distinzione di base tra le tecnologie CCS riguarda il livello a cui il carbonio viene incamerato. Le opzioni sono due:
- Cattura del carbonio prodotto durante uno specifico processo industriale, contestualmente a tale processo;
- Cattura di CO2 già presente nell’ambiente. In questo caso, le pratiche più comuni sono la Bioenergy Carbon Capture and Storage (BECCS), ovvero il ricorso al rimboschimento e, quindi, alla fotosintesi per la cattura, producendo contestualmente biocarburanti, e la Direct Air Capture (DAC), dove la cattura avviene tramite filtrazioni o lavaggi dell’aria.
Ulteriore motivo di distinzione è il finanziamento dell’impianto. Se, infatti, sono diverse le strutture CCS pilota e sperimentali, molto più rari sono gli impianti aventi carattere commerciale (nel mondo sono solo 32 quelli attualmente operativi). Questi sono i più importanti in prospettiva di sviluppo sostenibile perché, inserendosi nel mercato, si pongono come un’alternativa competitiva alle FER che permette anche ai settori brown di mettersi in linea con standard ambientali sempre più stringenti.
L’International Energy Agency (IEA) considera gli impianti CCS tra gli attori essenziali all’annientamento delle emissioni, qualora la loro implementazione raggiunga dimensioni adeguate. Infatti, guardando alle stime di decarbonizzazione al 2100, appare come lo scenario di mantenimento dell’attuale configurazione dei consumi energetici supportato dalla messa in atto di tecnologie BECCS sia quello che dà migliori prospettive.
Perché l’apporto delle tecnologie CCS sia significativo occorrerà, però, un grado di adozione di gran lunga superiore a quello attuale. Nello scenario di sviluppo sostenibile dell’IEA si assume che il volume delle emissioni trattate annualmente raggiunga i 7,6 miliardi di tonnellate entro il 2050: una quantità quasi 200 volte maggiore rispetto ai 40 milioni di tonnellate trattati nel 2020. In altre parole, per attuare lo scenario Net Zero andrebbero inaugurati dieci nuovi impianti al mese da qui al 2030.

Anche se non a questi ritmi, le tecnologie CCS stanno effettivamente prendendo piede, come dimostrano le mosse di alcuni grandi attori internazionali. Gli Stati Uniti hanno destinato 12 miliardi di dollari per la catena del valore CCUS nei prossimi cinque anni con l’Infrastructure Investment and Jobs Act. Il Canada ha introdotto nel 2022 un credito d’imposta sugli investimenti per i progetti CCUS che verranno inaugurati tra 2022 al 2030.
Il Global CCS Institute, oltre a censire i progetti di cattura e stoccaggio del carbonio avviati nel mondo e a monitorare l’attività delle strutture operative e in via di avviamento, rilascia due indici utili a capire le dinamiche internazionali sottostanti la diffusione – e la concentrazione – delle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2. Il requirement index, un indice basato sulla quota produzione e consumo di combustibili fossili del paese sul totale globale, intende informare sulla necessità del paese stesso di tagliare le proprie emissioni. Intuitivamente, gli stati che hanno un impatto proporzionalmente maggiore dovrebbero essere i più impegnati anche sul fronte della gestione delle emissioni dannose. La mappatura delle iniziative nel mondo dà conto del fatto che questa prescrizione non sempre corrisponde a verità quando si tratta di CCS. Non solo: il secondo indice, il readiness index, riporta che i paesi che attualmente sono meno propensi ad accogliere questo tipo di tecnologie mancano delle necessarie condizioni normative e strategiche per compensare le proprie mancanze.

Non stupisce che gli impianti siano perlopiù concentrati nei paesi occidentali, a maggiore intensità di capitale umano e di attività ad alto valore aggiunto. Infatti, si tratta di tecnologie altamente innovative che possono sperare di avere un’attrattiva commerciale solo in contesti in cui gli standard ambientali sono stringenti e in cui gli investitori sono reattivi a tecnologie d’avanguardia. Paradigmatico è il Regno Unito che, nonostante non abbia un elevato requirement score, è tra i contesti più favorevoli al dispiegamento delle tecnologie CSS. D’altro canto esistono alcune eccezioni. Ad esempio, la penisola arabica conta nel complesso sei strutture commerciali (tre negli Emirati Arabi, due in Arabia Saudita e uno in Qatar), pur non contribuendo in maniera preponderante all’inquinamento globale.
L’Europa, come il Regno Unito, non ospita stati ad alto requirement score. Ciò nonostante, il continente è alveo per diverse iniziative di cattura e stoccaggio (circa 120, di cui otto pienamente operative). La Norvegia è la leader tecnologica, con un readiness score tra i più alti del mondo e undici impianti presenti (di cui otto a carattere commerciale e quattro operativi). La Danimarca ha già stanziato cinque miliardi di euro per progetti di cattura e stoccaggio del carbonio. Anche i Paesi Bassi continuano a incentivare questa tecnologia. Belgio, Svezia, Croazia e Grecia hanno tutte incluso nei loro piani nazionali di rilancio investimenti relativi a CCS e CCU (carbon capture and usage). Per incoraggiare la ricerca e la collaborazione tra stati membri dell’Unione Europea, è stata lanciata l’iniziativa di comune interesse europeo Northern Lights. Si tratta di un progetto di cooperazione con la Norvegia per il trasporto del carbonio stoccato nelle città europee al largo della penisola balcanica.
Anche l’Italia ha all’attivo due impianti di CSS. Il meno recente è un progetto pilota situato a Brindisi, nato da una cooperazione tra Eni ed Enel avviata nel 2010. L’ultimo arrivato è un impianto in fase di avviamento nel ravennate. Anche in questo caso, l’iniziativa è stata del gruppo Eni, con partner Snam. Quest’ultimo impianto sarà il primo in Italia ad avere carattere commerciale.