Il conflitto russo-ucraino ha reso più evidente che mai il legame tra geopolitica ed energia. In virtù dell’atteggiamento aggressivo della Russia, l’Europa ha dovuto rinunciare al suo più storico fornitore di gas, sacrificando la sicurezza degli approvvigionamenti alla causa della difesa dei confini atlantici, cosicché un momento di crisi internazionale ha avuto un risvolto ecologico positivo sotto forma di un nuovo impulso alla transizione energetica. Contemporaneamente, si sono creati nuovi intrecci bilaterali pensati per garantire la fornitura di gas, fintantoché la decarbonizzazione del settore energetico non sia completa. Andando a leggere tra le righe, l’effetto causale è bidirezionale: se, da un lato, il quadro geopolitico determina gli esiti e il ritmo della transizione, dall’altro è proprio la transizione a modulare nuovi binari nelle relazioni internazionali. È la geopolitica della transizione.

Nell’ultimo Energy Outlook, il rapporto annuale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, si cerca di considerare l’ipotesi di un quadro geopolitico frammentato negli scenari di decarbonizzazione. Il paragrafo 1.9, in particolare, rende conto della difficoltà di immaginare quello che sarà un low-trust world, un mondo in cui la diffidenza caratterizza la relazione tra potenze. Per comprendere la complessità della geopolitica della transizione, basta guardare all’altra sponda del Mediterraneo. La guerra tra Israele e Hamas ha portato alla chiusura del giacimento di Tamar di Israele, per evitare possibili ritorsioni da parte di Hamas. La decisione ha colpito in particolar modo l’Egitto, che importava da Tamar e che si trova ora in uno stato di grave incertezza quanto ad approvvigionamenti. La decisione di Israele avrà presumibilmente conseguenze di portata rilevante sull’intera regione e potrebbe intaccare anche gli interessi UE, che a sua volta ha stretto accordi per l’acquisto di gas dall’Egitto. Conseguenze ancora più indecifrabili discenderebbero da un eventuale coinvolgimento dell’Iran, grande esportatore di petrolio, nel conflitto. Secondo ISPI, “un’escalation del conflitto israelo-palestinese avrebbe pesanti conseguenze. In particolare, una regionalizzazione del conflitto con il coinvolgimento di diversi Paesi arabi potrebbe portare il prezzo del petrolio non lontano dai 150 dollari al barile”.

Prezzo atteso del Brent in diversi scenari del conflitto israelo-palestinese

Fonte: ISPI su dati World Bank

Chiaramente, non è possibile né prevedere né “quantificare” gli effetti che gli sviluppi sulla scacchiera internazionale avranno sul futuro. Ancora più difficile e incerto è proiettare questi sviluppi negli scenari -già di per sé incerti- di transizione. Tuttavia, si può immaginare che, in un contesto in cui le potenze mondiali dubitano del vicino, la reazione sia quella di una chiusura in sé stessi. I segnali sono già presenti: in ottica di sicurezza energetica, la penetrazione delle fonti rinnovabili è un passaggio in certa misura autarchico, poiché permette un’autonomia strategica quanto ad approvvigionamento energetico.

Eppure, l’isolamento non è e non può essere il futuro. Al contrario, rischia di esporre gli stati a una pericolosa arretratezza tecnologica. Le tecnologie pulite più essenziali per la transizione, a partire dagli accumuli e dai pannelli solari, si stanno ancora sviluppando lungo le catene globali del valore, cosicché lo scambio di competenze, tecniche e materiali è cruciale. Un’eventuale chiusura commerciale dettata da rivalità e diffidenza rischierebbe, in particolare, di inasprire un problema già grave come quello della concentrazione dei materiali necessari alle transizioni energetiche e digitali. Partnership commerciali stabili con i Paesi estrattori e raffinatori sono diventate una necessità, ma non possono verificarsi in mancanza di affidabili relazioni bilaterali.

 

Distribuzione geografica di alcuni minerali critici alla transizione energetica (2021)

Fonte: Elaborazioni I-Com su dati OCSE 2022

Lo schema del trilemma energetico postula che i tre obiettivi del sistema energetico, ovvero economicità dell’energia, sicurezza degli approvvigionamenti e mitigazione dei cambiamenti climatici non possono essere soddisfatti tutti simultaneamente. La conflittualità delle relazioni colpisce almeno due dei tre vertici del trilemma. Innanzitutto, il tema della sicurezza, messo in difficoltà dalla minore differenziazione del portafoglio di approvvigionamento. In secondo luogo, il conflitto è fonte di incertezza, che sui mercati si traduce in un’aggravata volatilità dei prezzi. Volatilità e incertezza segnano le geografie dei commerci mondiali: le interconnessioni vanno sempre più riflettendo un’interdipendenza economica globale segnata dalla diffidenza, privilegiando il fattore sicurezza più che quello della convenienza. È il tempo del de-risking e, come insegna la teoria economica, una diminuzione di rischio va compensata economicamente.

La crisi energetica globale ha evidenziato un problema di resilienza del sistema energetico contemporaneo alle scosse geopolitiche. Ha anche mostrato come gli eventi storici possano influenzare il settore energetico e viceversa, poiché la geopolitica della transizione rimette in discussione il ruolo dei tradizionali importatori ed esportatori. Le recenti perturbazioni nelle relazioni internazionali hanno fin qui favorito e accelerato la trasformazione del sistema energetico. Eppure, un mondo frammentato, caratterizzato da rivalità e scarsa cooperazione, non farebbe altro che ostacolare gli impegni presi nell’Accordo di Parigi. Riuscire a cavalcare quest’epoca prevede di mitigare la conflittualità e promuovere la collaborazione diplomatica e commerciale: è questa l’unica speranza per un futuro sostenibile.