La discussione si è finalmente aperta e, dopo anni caratterizzati da austerity prima e COVID poi, i nodi stanno gradualmente venendo al pettine: a pochi anni dal cinquantesimo anniversario dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), si sta iniziando a diffondere il sentore che la necessità di rivedere il nostro modello di accesso alle cure e alla salute sia ormai, forse, non più rimandabile.
I temi sul tavolo sono molteplici e vanno dalla sostenibilità dell’attuale modello welfaristico alla necessità di garantire cure accessibili e di qualità, dall’imprescindibile bisogno di attrarre innovazione e investimenti alle potenzialità delle numerose novità digitali e tecnologiche nel campo medico. Nodo cruciale sono però le risorse, senza le quali il nostro SSN, e con esso il benessere del paese, rischia di scivolare sempre più indietro perdendo non solo di capacità ma anche di attrattività.
QUANDO LA PIRAMIDE SI CAPOVOLGE: LA CRISI DEMOGRAFICA E L’IPOTESI DI UN SSN SOCIOSANITARIO
Quando si parla del nostro sistema di cure, e in modo più ampio della tenuta del nostro attuale modello di welfare, non si può non partire da una analisi delle tendenze demografiche. È infatti questo l’elemento che più di tutti incide sugli equilibri sociali del paese ma anche sulla di domanda di cura, ormai sempre più ampia e variegata nella tipologia di servizi richiesti. L’Italia è da anni in un vortice demografico senza precedenti: nel 2023 il numero di over 65 era il doppio di quello dei minori di 15 anni (14,1 milioni contro 7,3 milioni), un dato su cui pesa anche il calo della natalità (fra le più basse al mondo, con circa 1,2 figli per donna) e che si riversa inevitabilmente anche sull’aumento della spesa pensionistica – voce che nel bilancio dello stato già assorbe il 15% del PIL contro il solo 6,4% attualmente previsto per la sanità pubblica.
All’aumentare del numero di anziani è inevitabilmente legato anche il numero di cittadini con più di una malattia cronica, nonché quello delle persone bisognose di assistenza o in condizioni di non-autosufficienza. Proprio su questi ultimi elementi, e a fronte dell’aumento nella spesa per forme di assistenza sociosanitarie “informali”, nel dibattito pubblico si iniziano a porre una serie di interrogativi circa l’effettiva efficienza di strumenti come l’istituto delle indennità di accompagnamento. Nel solo 2022 circa il 70% dei 14,5 miliardi euro di indennità di accompagnamento erogate era stato infatti destinato all’“acquisto” di servizi da soggetti che svolgono la professione di badante/di caregiver o da strutture dedicate alla cura e al trattamento di soggetti non autosufficienti. In un’ottica di efficientamento – ma anche di qualità – delle cure, ci si sta iniziando a interrogare se per il nostro modello di welfare possa essere arrivato il momento di iniziare a considerare una possibile transizione dall’attuale Servizio Sanitario Nazionale (ovvero l’attuale SSN) ad un Servizio Sociosanitario Nazionale, nel quale privilegiare modelli “formali” di assistenza sociosanitaria rispetto a quelli “informali” di oggi (come badanti, componenti del nucleo familiare, e altre figure non professionalizzate). Si favorirebbe così l’erogazione di servizi in natura, che sarebbero coordinati e integrati con gli altri servizi sanitari complementari e già esistenti, al posto delle attuali modalità di assistenza basate su indennità monetarie.
PER NON ALLONTANARSI (ULTERIORMENTE) DALL’EUROPA SERVONO 15 MILIARDI
Ma se da una parte i bisogni sanitari della popolazione italiana sono in forte aumento, la tendenza registrata in termini di risorse destinate al SSN è tutt’altra, in particolare nel confronto con gli altri paesi UE.
Nonostante gli aumenti di finanziamento recentemente approvati dall’ultima Legge di Bilancio, che prevede investimenti record (in termini assoluti) di 3 miliardi di euro per il 2024, e poi di 4 miliardi di euro per il 2025 e 4,2 miliardi di euro per il 2026 (anno in cui il Fondo Sanitario Nazionale raggiungerà i €136 miliardi complessivi), secondo i dati dell’ultimo Rapporto C.R.E.A. Sanità il livello della spesa italiana per la sanità è infatti del 32% inferiore rispetto a quello della media europea. Tale distanza è inoltre destinata a permanere: tenendo conto della tendenza economica e inflattiva, le stime della NADEF prevedono un rapporto tra la spesa sanitaria e il PIL in calo del 6,7% del 2023 al 6,4% del 2024 e 2025 – dato più basso dal 2014 e decisamente inferiore rispetto a quello registrato in Francia e Germania, dove la spesa sanitaria rappresenta oscilla tra il 10 e l’11% del PIL.
Dunque, quanto occorrerebbe investire per tentare di colmare il divario? Secondo le stime sarebbero necessari 15 miliardi di euro, una cifra che porterebbe la quota di PIL destinata alla sanità “sui valori attesi in base alle effettive disponibilità del Paese”, consentendo così di non far aumentare il distacco dagli altri Paesi europei.
L’OPPORTUNITA’ DEL PNRR, LA NECESSITA’ DI INTEGRARE AL MEGLIO LE NUOVE STRUTTURE E IL NODO IRRISOLTO SULLE PROFESSIONI
In questo contesto, negli ultimi anni un elemento di novità è stato introdotto dal PNRR, Piano che anche nel capitolo dedicato alla salute (Missione 6) prevede investimenti e riforme indirizzate al rilancio del settore e al superamento di problemi del nostro SSN, come le eccessive liste di attesa e il mancato aggiornamento tecnologico e digitale. Contemporaneamente, la Missione 6 pone l’obiettivo di ripensare il modello di accesso alle cure, programmando un’organizzazione che consentisse il superamento del modello ospedalocentrico rafforzando l’assistenza territoriale e la cura di prossimità.
Complessivamente, l’investimento programmato dalla Missione Salute ammonta a 15,63 miliardi di euro (l’8,16% del totale degli investimenti del PNRR), una cifra di gran lunga superiore ai consueti investimenti annuali e dei fondi a disposizione dello Stato, e rappresenta senza dubbio un’opportunità senza precedenti per il rilancio della sanità in Italia. A prescindere dalle recenti modifiche al Piano, il raggiungimento dei target prefissati deve infatti continuare ad essere un obiettivo centrale per l’azione di governo del nostro paese per il prossimo triennio (2024-2026), e con esso la piena messa a sistema di tutte le risorse che saranno necessarie per il funzionamento del rinnovato ecosistema salute anche dopo il 2026. La preoccupazione che infatti inizia a diffondersi è infatti quella che il PNRR rischi di diventare l’ennesima occasione non colta, con investimenti poco strategici o addirittura incapacità di destinare i fondi previsti. Come evidenziato nel Policy Brief “L’attuazione della Missione 6 in vista della manovra” , pubblicato da I-Com a fine 2023, la quota di fondi PNRR effettivamente impiegati era ferma al 38%, mentre secondo la programmazione iniziale si sarebbe dovuti essere già oltre il 50%.
A questo si aggiunge la persistente mancanza di chiarezza su come le numerose nuove strutture fisiche previste dal PNRR, positivamente progettate e ideate per favorire un modello più prossimo e accessibile, si integreranno non solo con i servizi già esistenti, ma anche con l’insieme di operatori e professionisti del SSN. Il tema occupazionale in ambito salute rimane uno dei nodi irrisolti anche dal PNRR, che non prevede assunzioni per un settore che tuttavia, tra le altre urgenze, vede anche una forza lavoro sempre più esigua e meno attrattiva per le nuove generazioni. Secondo le ultime evidenze, emerge infatti che oltre il 40% dei camici bianchi non sia soddisfatto della propria situazione professionale e che, la prima volta nella storia del Servizio Sanitario Nazionale, il settore pubblico non è più la prima scelta dei professionisti in quanto molti giovani sono sempre meno disposti ad accettare condizioni di lavoro dure e poco gratificanti, preferendo destinazioni estere o cliniche private.
TROVARE NUOVI EQUILIBRI PER IL FUTURO DEL SSN
Secondo numerosi accademici dell’economia pubblica e non solo, il welfare state è la più grande innovazione sociale del Ventesimo secolo. Oggi, però, in un mondo profondamente mutato, deve rispondere alle esigenze di una società che presenta sfide inimmaginabili non solo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale quando le basi della cura universale furono esposti nel Rapporto Beveridge, ma anche solo pochi decenni fa. Soprattutto in Italia, l’assetto iniziale del SSN affronta una fase di evidente crisi, e anche l’inerzia con cui si è deciso di rimandare ogni progetto di riforma complessiva risulta oggi non più sostenibile. A destare preoccupazione non sono più “soltanto” gli annosi problemi del nostro servizio sanitario (dalle liste di attesa ai posti letto insufficienti, dal sottofinanziamento al mancato rinnovamento di strutture e attrezzature), ma anche l’assetto stesso che oggi fatica a tenere insieme i principi di universalismo, di efficienza e di sostenibilità.
Occorre pertanto avviare un dibattito maturo, sincero, che superi i preconcetti, sul futuro del nostro SSN. Un dibattito, questo, che tenga insieme tutti gli attori del settore, e che riconosca nella salute non solo una voce di spesa del bilancio per il quale occorre un radicale intervento di efficientamento, ma anche un’opportunità di crescita per il benessere e la società tutta. Come evidenziato anche dal recente Rapporto di Fnomceo e Censis sugli impatti economici e occupazionali della spesa sanitaria pubblica, più che un costo quest’ultima è in realtà un investimento a tutti gli effetti, e presenta un fattore moltiplicatore della transizione dalla spesa al valore della produzione pari a 1,84. In altre parole: per ogni euro speso nel SSN ne vengono generati poco meno di due.
In un’ottica di inversione dei paradigmi attuali, si amplia il consenso intorno alla necessità di superare l’attuale approccio supply-oriented a favore di una maggiore attenzione alla domanda. Fortemente mutata negli anni tra trasformazioni demografiche e digitali, quest’ultima sembra oggi andare nella direzione di servizi di cura che vadano oltre la mera offerta clinica e verso un’integrazione con la presa in carico dei bisogni sociali e, più in generale, di adeguamento alla trasformazione dei bisogni, delle aspettative e dei comportamenti di consumo legate all’evoluzione tecnologica.