La moltiplicazione dei pay-back certifica il fallimento della spending review sanitaria

Due vicende che si stanno sviluppando parallelamente, senza che per ora nessuno le abbia messe in collegamento, illustrano la crescente complessità della governance sanitaria. Con effetti del tutto distorsivi per le imprese che operano nell’industria della salute, uno dei pochi settori high-tech dove l’Italia possa vantare posizioni di leadership. E senza risolvere strutturalmente la questione dell’allocazione e del controllo della spesa, certificando dunque il fallimento fin qui della spending review applicata alla sanità.

Nel mese di marzo, il TAR del Lazio ha accolto quasi per intero il primo ricorso contro l’attribuzione del budget aziendale di spesa (relativo al 2013), superato il quale l’impresa deve contribuire con il cosiddetto “pay-back” all’eventuale sforamento della spesa ospedaliera. Naturalmente, la partecipazione della singola azienda, pari al 50% della differenza tra spesa effettiva e budget assegnato pro-capite, è dovuta solo nel caso in cui sia superato il tetto complessivo della spesa farmaceutica ospedaliera, fissato al 3,5% del finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale dalla stessa Legge n.135 del 2012, che ha introdotto lo strumento nel canale ospedaliero. Ma, considerato che il tetto era già basso inizialmente e che l’ospedaliero è il segmento dove si concentrano le cure più innovative e anche costose, lo sfondamento e il conseguente ripiano a carico delle imprese è al momento una certezza quanto il sorgere del sole ogni giorno.

Non si tratta peraltro di cifre da poco. Nel 2013 lo sforamento rispetto al 3,5% è stato pari a 738 milioni di euro e dunque il conto da saldare per le aziende farmaceutiche è risultato pari a 369 milioni di euro (in attesa dell’esito del contenzioso in atto). E le cifre sono previste in aumento per gli anni successivi (a partire dal 2014). Ma la cosa che più dà fastidio alle imprese è che questa forma di pay-back, che di fatto, data l’asticella troppo bassa, si configura come una forma surrettizia di imposizione fiscale, non si spalma sull’intero sistema ma grava solo su un numero limitato di imprese, quelle che hanno un portafoglio di prodotti più nuovo e di crescente successo. E che guarda caso sono praticamente tutte imprese straniere che operano in Italia, molte delle quali sono state ricevute in pompa magna dal Premier Renzi il 6 ottobre scorso. Nella circostanza, il Presidente del Consiglio si era impegnato a migliorare il quadro politico-regolatorio per attrarre investimenti nel settore. Ma se, a livello istituzionale, la mano destra disfa quello che fa (o promette) la sinistra l’unico risultato che si ottiene è l’ennesima perdita di credibilità del sistema.

Le censure del Tribunale Amministrativo Regionale, che dovrebbero replicarsi a cascata sui tanti altri ricorsi in attesa, si riferiscono ovviamente non tanto al meccanismo in sé, adottato da una Legge dello Stato (semmai sui possibili profili di incostituzionalità si pronuncerà presto o tardi la Consulta, ammesso che non intervengano modifiche legislative nel frattempo) ma a come è stato (per lo più obtorto collo) implementato dall’Agenzia italiana del farmaco. Che, nell’assegnare i budget alle singole aziende, non è stata in grado di scomputare a livello micro la spesa relativa alla distribuzione “diretta” e “in nome e  per conto” (che va sottratta alla spesa ospedaliera per ricavare i budget globali e aziendali), nonché le somme già restituite dalle aziende attraverso le procedure di rimborsabilità condizionata (payment by results, risk-sharing e cost-sharing) e a titolo di pay-back sui farmaci di fascia A ceduti in ospedale (oltre ad aver utilizzato una procedura di stima della spesa ospedaliera contestata dalle aziende). In questo modo, non garantendo la necessaria trasparenza e dunque la possibilità dell’impresa in questione di partecipare al procedimento, potendo controllarne l’esattezza delle stime ed eventualmente eccependone i risultati.

Se la gestione dei flussi informativi è un grosso problema per l’applicazione del meccanismo del pay-back in ambito farmaceutico (e certamente il compito dell’AIFA è assolutamente improbo), il discorso diventa ancora più serio nel caso dei dispositivi medici, dove la tracciabilità della spesa è storicamente meno sofisticata. Stupisce dunque (ma fino a un certo punto, dopotutto) che l’accordo tra Stato e Regioni sui tagli alla spesa sanitaria per 2,35 miliardi nel 2015 ruoti in parte sull’introduzione del pay-back a carico delle imprese nel settore dei dispositivi (nell’ultima bozza, con un meccanismo a salire sullo sfondamento del tetto attualmente del 4,4%, pari al 30% nel 2015, al 40% nel 2016 e al 50% a regime, dal 2017 in avanti). Se da una parte può risultare condivisibile riservare ai dispositivi lo stesso trattamento al quale è sottoposta la farmaceutica (in vigore fin dal 2007 sul canale territoriale, seguito quasi 5 anni dopo da quello ospedaliero), lascia certamente perplessi che lo strumento sia introdotto a valere sull’anno in corso. Tenuto conto che un accordo tra Stato e Regioni dovrà essere seguito necessariamente da un provvedimento legislativo, si arriverebbe nella migliore delle ipotesi all’inizio del secondo semestre dell’anno semplicemente per far conoscere alle imprese a grandi linee come funzionerà lo strumento già a valere da quest’anno. Per non parlare dei provvedimenti attuativi che difficilmente potranno arrivare prima della fine dell’anno. Di fatto, si tratterà di una manovra fiscale retroattiva che facilmente sarà seguita da una nuova stagione di contenziosi.

Certo, se vediamo la bozza di compromesso predisposta dal Ministero della Salute, che sarà discussa nella riunione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome convocata il prossimo 29 aprile, l’istituzione dell’ennesimo pay-back non è l’unica misura discutibile.

La rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi e degli stessi dispositivi medici, che sono le prime due misure previste nel documento, ripropone una metodologia di tagli lineari totalmente squalificata da anni di pratica. Oltre ad essere ancora una volta ingiusta verso le aziende che si trovano con la pistola puntata alla tempia (secondo il principio “o rinegozi o ti rescindo il contratto”, più degno di un saloon che di uno Stato di diritto). Tanto più che le imprese più penalizzate sarebbero quelle che hanno caricato di meno sui prezzi rispetto ai costi e che dunque subiscono di più i tagli indiscriminati.

Ci troviamo insomma di fronte all’ennesima manifestazione di incapacità di governo della spesa secondo criteri elementari di efficienza ed efficacia, mascherata da meccanismi punitivi verso le imprese, a prescindere dai loro meriti e dalle singole situazioni. D’altronde, quale sarebbe un’azienda privata che tratta i propri fornitori allo stesso modo (e, anzi, penalizzando soprattutto i venditori che applicano le condizioni migliori)? Sarebbe senz’altro un’impresa in difficoltà nel breve periodo e destinata al fallimento nel medio-lungo. Forse sarebbe ora di dichiarare il fallimento finanziario ma soprattutto politico di qualche istituzione pubblica, a cominciare dall’attuale modello regionale. Totalmente incapace di ridurre la spesa laddove ci sono evidenti margini per farlo e sempre più bravo a trovare meccanismi alternativi per far pagare il conto dei propri sprechi ad altri soggetti.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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