Abbiamo superato il giro di boa del 15 ottobre sapendo che per ora tagli lineari al FSN non ci saranno, mentre il Patto della Salute è ancora in cantiere. Il dibattito estivo in materia sanitaria si è concentrato prevalentemente su quest’empasse e sulla questione dei costi standard ancora da definire, mentre altre notizie sono rimaste sullo sfondo. Ad esempio poco si è detto di un’ iniziativa parlamentare, certamente di minor impatto mediatico e minor portata rispetto a questi grandi temi, e tuttavia interessante e innovativa, se letta anche in chiave di sostenibilità del sistema.
Si tratta della proposta di legge presentata il 5 agosto dall’on. Pierpaolo Vargiu – Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera – per la codificazione di una normativa nazionale sulla medicina di genere e l’istituzione- tra l’altro – di un ‘Osservatorio nazionale ad hoc.
La ragione di questa proposta è da attribuirsi non solo alle ovvie differenze biologiche tra uomo e donna che – rispetto alla stessa malattia – possono determinare differenze nella sintomatologia, decorso, e risposta clinica, a seconda del sesso. L’intenzione dei firmatari è orientata a una concreta differenziazione nell’accesso ai servizi in ospedale e sul territorio, e alla personalizzazione delle cure sulla base del genere. Già lo dimostrano le buone pratiche avviate in alcune Regioni quali Emilia Romagna, Toscana,Puglia e Piemonte che hanno inserito la medicina di genere nei propri Piani Sanitari.
Un impegno gender oriented della politica sanitaria che sia a tutto tondo e non più solo limitato, come da tradizione, allo studio delle soluzioni e dei percorsi di prevenzione e cura legati all’apparato riproduttivo. L’approccio di genere dovrebbe guidare la programmazione delle cure primarie anche per la fragilità delle donne rispetto alle cronicità (per esempio quelle legate all’apparato cardiovascolare) che nel tempo le donne sviluppano di più rispetto agli uomini, pur godendo di un’aspettativa di vita maggiore. Nella proposta di legge 1485 si legge che “le donne si ammalano di più e consumano molti più farmaci rispetto agli uomini, mentre patologie comuni a entrambi i generi come osteoporosi, artrite, artrosi, disturbi psichiatrici vedono coinvolte più le donne che gli uomini per motivi legati a biochimiche fisiologiche e anche sociali”.
Alcuni numeri possono dare la misura di questa disparità: le donne soffrono di più di ipertensione (+30%), diabete (+9%), malattie reumatiche(+49%) e depressione (138%) rispetto agli uomini. Sempre nella proposta di legge il j’accuse non è troppo velato, perché la medicina è al momento “a misura di organismo maschile”, con conseguenze a volte anche drammatiche in termini di appropriatezza terapeutica e successo clinico, considerando anche la diversa risposta alle terapie farmacologiche e la maggior gravità delle reazioni avverse nella popolazione femminile.
Secondo i dati di farmacovigilanza riportati nel Rapporto Osmed 2012, parte della responsabilità delle reazioni avverse ai medicinali nelle donne è causata da sovradosaggio o politerapie, che a loro volta sono l’effetto di dosaggi farmacologici tarati su soggetti maschili. Un primo step dovrebbe essere annoverare un numero pari di uomini e di donne nei trial clinici, come suggerito dalla FDA ed EMA, ma anche raccogliere i frutti che arriveranno dal progetto “Appropriatezza delle cure”, presentato il 4 novembre e nato dalla collaborazione tra Istituto Superiore di Sanità, AIFA e Age.Na.S.
Nel progetto dell’ISS si parla naturalmente anche di sostegno alla ricerca femminile e del rafforzamento della governance per garantire su tutto il territorio nazionale la reale applicazione delle direttive comunitarie in tema di salute femminile. Si tratta insomma di un cambiamento non da poco, che porterebbe sicuramente benefici al sistema sanitario anche in termini di sostenibilità della spesa, per l’accento posto sull’appropriatezza terapeutica e – a monte – sulla prevenzione e la rete delle cure primarie. Le implicazioni sul piano sociale sarebbero altrettanto importanti, perché l’obiettivo finale è tradurre concretamente nel nostro Paese il tanto citato principio di non discriminazione ed equità nell’accesso alle cure e ai servizi sanitari.
L’equità nell’accesso non si esaurisce con la medicina di genere, ma lo sviluppo di quest’ultima potrebbe essere di grande aiuto per migliorare l’efficienza del sistema sanitario. I propositi sono comunque ottimi come pure le potenzialità, quindi ci si augura che questo progetto vada in porto, affinché si possa creare un sistema sanitario in continuo miglioramento.