Una recente pronuncia di inammissibilità del Tribunale di Milano evidenzia contraddizioni vecchie e nuove sulla interpretazione dei criteri di ammissibilità delle azioni collettive previsti dall’art. 140-bis del Codice del Consumo e sulla validità dello strumento in esame.
Secondo quanto riportato dal Corriere della sera il 19 aprile scorso, il Tribunale di Milano si sarebbe espresso giudicando inammissibile l’azione proposta da Codacons rilevando l’inadeguatezza dell’Associazione a curare gli interessi della classe di utenti. Tale giudizio sarebbe diretta conseguenza della mancata indicazione, all’interno dell’atto introduttivo, di elementi idonei a consentire valutazioni circa la sussistenza dell’omogeneità tra i diritti individuali fatti valere.
Al di là della polemica ingenerata a distanza tra la testata giornalistica e l’associazione, testimoniata in primo luogo dal tenore dell’articolo (intitolato: “Milano, giudici contro il Codacons «È inadeguato a fare class action»”) e dalla risposta dell’Associazione, appare di interesse approfondire l’argomento rappresentando alcune criticità che non favoriscono la diffusione della class action.
È stato da più parti sottolineato l’infelice percorso dell’introduzione dell’azione di classe nel nostro ordinamento, che ha di certo pagato lo scotto della sua travagliata genesi e dell’introduzione nell’art. 140-bis del Codice del Consumo di meccanismi processuali non inediti per il nostro ordinamento. In particolare, l’articolo di giornale offre il destro per dedicare l’attenzione ai c.d. criteri di ammissibilità dell’azione collettiva, previsti dall’art. 140 bis del Codice del Consumo, che hanno lo scopo di operare una selezione di una parte attorea “adeguata” a rappresentare l’interesse collettivo e poter attirare il maggior numero di adesioni.
Sulla base di tali criteri, il giudice, prima di entrare nel merito, deve valutare: la sussistenza della identità dei diritti individuali coinvolti, l’idoneità del proponente a curare adeguatamente l’interesse della classe, l’assenza di conflitti d’interesse, oltre ad un sommario esame sostanziale, con valenza prognostica, della non manifesta infondatezza della domanda.
In sede di prima applicazione del nuovo istituto e delle nuove procedure, escogitate per favorire il raggiungimento dei citati obiettivi, sono emerse soluzioni interpretative spesso divergenti da parte dei giudici. In particolare, si registra in parte della giurisprudenza il tentativo di leggere e risolvere le questioni di ammissibilità dell’azione collettiva attraverso istituti o principi classici, nel cui perimetro si è dunque cercato di far confluire, fino a sfumarle, molte delle particolarità della class action (a titolo esemplificativo si citano: Trib. Torino, 28 aprile 2011, in Foro it., 2011, I, 1888 ss.; Trib. Torino, 4 giugno 2010, in Foro it., 2010, I, 2523 ss.). Si tratta di pronunce che hanno visto riforma in sede di appello (rispettivamente: App. Torino, 23 settembre 2011, in Foro it., 2011, 3422 ss.; App. Torino, 27 ottobre 2010, in Foro it., 2010, I, 3530 ss.). In particolare, quei giudici di appello hanno messo in luce come la portata innovativa di una norma possa restare facilmente imprigionata nel recinto di logiche processuali tradizionali che non le consentono di esprimere quella forza di rottura, dagli schemi della tutela individuale, di cui il legislatore l’ha dotata.
Diverso è il percorso seguito dalla giurisprudenza in altra casistica, caratterizzata dal vaglio positivo di ammissibilità dell’azione collettiva e da un approccio più sostanziale che formale nella verifica delle condizioni di ammissibilità stesse (a titolo esemplificativo Trib. Milano, 20 dicembre 2010, in Responsabilità civile e previdenza, 2011, 1096 ss.).
Tra le pronunce di ammissibilità e modalità di verifica sembra dunque che vi sia un nesso causale inscindibile: le pronunce di ammissibilità delle azioni collettive finora proposte provengono da quei giudici che hanno evitato di sottostare a rigidi formalismi mutuati dalla tutela individuale; là dove essi sono stati applicati, l’azione collettiva si è arrestata davanti al filtro dell’ammissibilità.
Il nostro sistema di class action mostra dunque evidenti limiti che si sommano a quelli dei tempi della giustizia ed ai costi per una tutela individuale. Il punto debole, però, e tale è lo spunto che consente di criticare la recente sentenza del Tribunale di Milano, sta nell’aver prescritto la pubblicità dell’azione, rivolta ai possibili aderenti, dopo la fase di ammissibilità della domanda. Infatti, è pur vero che ex art. 140-bis, comma 3, ultimo periodo, cod. cons. sono valide ed efficaci le eventuali adesioni all’azione se pervenute prima della pronuncia di ammissibilità. Tuttavia, appare ragionevole credere che la quasi totalità delle adesioni possa concretamente realizzarsi solo successivamente la pubblicità, prescritta dalla legge, con i consumatori hanno possibilità di apprendere la notizia non tanto della mera pendenza dell’azione, quanto piuttosto che essa ha assunto sufficienti connotati di credibilità a seguito della positiva verifica di ammissibilità. Prima di questo momento, infatti, l’azione potrebbe apparire ai potenziali aventi diritto ancora fragile e dall’esito incerto, inducendoli all’inerzia.
Queste riflessioni fanno certamente ritenere opportuna una riforma legislativa che consenta nel concreto di rafforzare la tutela dei consumatori attraverso una sostanziale semplificazione delle procedure di accesso all’azione collettiva e che non si presti ad interpretazioni restrittive e limitanti il successo e la diffusione dello strumento.