Variabilità geografica e appropriatezza delle cure: bene i sistemi di valutazione italiani, ma l’OCSE ci promuove con riserva

A prescindere dal modello di gestione di un sistema sanitario, adottare un approccio multistakholder soprattutto nella clinical governance può pagare. Sembra questa la conclusione più immediata che l’OCSE traccia in un report pubblicato a settembre dedicato alle variazioni geografiche – sia tra Paesi che all’interno di uno stesso sistema – nel ricorso ai servizi e alle prestazioni sanitarie. Questa visione si deve tradurre, in sostanza, in una maggior trasparenza e in un più fitto coinvolgimento dei principali attori della domanda e dell’offerta, ovvero provider e pazienti. Nel report, gli studiosi hanno analizzato e rielaborato gli ultimi dati disponibili – nella maggioranza dei casi registrati nel 2011 – presenti nelle banche dati delle schede dimissione ospedaliera di 13 Paesi dell’area OCSE inclusi Regno Unito, Francia, Canada, alcuni stati del Nord Europa e Italia, soffermandosi su dieci prestazioni ad alto volume ed elevata remunerazione.

Al di là degli scostamenti rilevati sulle singole attività – spiccano chirurgia cardiovascolare e protesi al ginocchio – persiste una generale variabilità, sia nel confronto tra sistemi che all’interno di uno stesso, e anche a prescindere dalle differenze nella struttura demografica. Di più, se alcune differenze riflettono le diversità nei bisogni e/o preferenze espresse dal paziente o le variazioni nella pratica clinica, altre sono imputabili alla disomogeneità nell’accesso ai servizi e alla capacità dei fornitori ed erogatori di generare la domanda di ciò che clinicamente è necessario. Sono proprio quelle che l’Ocse definisce distorsioni ingiustificate a richiamare l’attenzione sull’equità e l’efficienza dei sistemi sanitari. Su quelle distorsioni si sollecitano i governi a valutare alcune possibili soluzioni. L’OCSE sottolinea che l’obiettivo della riduzione della variabilità geografica pesa molto meno di quello della promozione dell’appropriatezza nell’erogazione delle cure, che implica a sua volta anche una migliore risposta alle esigenze del cittadino/utente/paziente.

Tra i vettori di miglioramento si segnalano un’adeguata pubblicizzazione della reportistica delle variazioni geografiche subnazionali, evidenziata dagli atlanti curati in alcuni Paesi come Regno Unito, Spagna, Germania, Paesi Bassi, e la definizione di obiettivi a livello regionale. Per questo secondo aspetto due degli esempi citati nel report si riferiscono all’Italia: l’uno riguarda l’attuale potenziamento nel sistema di monitoraggio dei LEA, l’altro il Piano Nazionale degli Esiti, che Age.na.s intende potenziare ma che è uno strumento di audit che “presenta già valutazioni comparative tra tutte le strutture italiane (pubbliche e private) di efficacia, sicurezza, efficienza e qualità nelle cure” o meglio di “interi processi di cura”, come qualche settimana fa ricordava proprio il DG dell’Agenzia Francesco Bevere.

Il report segnala infine altre due strategie di governance adottate con successo in alcuni Stati. Per quanto riguarda i provider indica: sviluppo e monitoraggio di linee guida cliniche come chiave di leva per standardizzare e armonizzare le procedure tra regioni (Spagna) perché “sistemi rigorosi di monitoraggio possono contribuire a promuovere la compliance agli standard elaborati a livello centrale”; un sistema di reporting e feedback rivolto ai fornitori di servizi in forma privata (Belgio); incentivi finanziari per ridurre il ricorso inappropriato alle operazioni chirurgiche, sull’esempio adottato da Francia, Inghilterra e Corea per il taglio cesareo. Per quanto riguarda i pazienti, indica l’implementazione nella condivisione del processo decisionale tra questi e i provider, la raccolta di informazioni sui pazienti in due fasi specifiche: prima dell’intervento (bisogni clinici) e dopo l’intervento (outcome sanitario), da comparare nel tempo o tra le diversi aree geografiche, e la diffusione del supporto al paziente nella fase decisionale, come fanno Regno Unito e Stati Uniti, per la valutazione dei rischi e benefici collegati a determinati interventi e servizi, specie in presenza di trattamenti alternativi. Questi strumenti possono essere  specialmente validi per ridurre il ricorso a interventi ad elevato impatto economico.

La pagella dell’Italia è quella di una promozione con riserva. Questo è evidente già solo considerando i limiti dello studio del nostro sistema sanitario incontrati dall’OCSE, tra cui le differenze nella qualità dei dati, che di conseguenza richiama “l’esigenza di armonizzare l’infrastruttura informatica con gli obiettivi della pratica clinica basata sulle evidenze”. In generale vanno premiati gli attuali percorsi di rafforzamento degli strumenti valutativi (PNE, SiVeAS, LEA) ma quel che più occorre alimentare – sostiene l’OCSE – è un approccio  multistakeholder (associazioni scientifiche e dei pazienti, decisori regionali, professionisti sanitari) nella valutazione delle pratiche cliniche, specialmente per l’Italia e per i Paesi caratterizzati da una governance decentrata dei servizi sanitari.

 

Public Affairs e Comunicazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, ha lavorato come redattrice per l’agenzia Axia curando approfondimenti e articoli per i mensili Technet ed Atlante su temi di sviluppo sostenibile, responsabilità sociale d’impresa, finanza etica, terzo settore e nuove tecnologie.

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