Questo articolo è stato pubblicato, a firma di Gianluca Sgueo, su Italia Oggi, l’ultima settimana di novembre:
È giovane: uno su due ha meno di 30 anni; di sesso maschile (55%), nato a Roma o proveniente dal Mezzogiorno. In oltre metà dei casi possiede una laurea specialistica (quasi sempre in giurisprudenza o scienze politiche) che ha conseguito presso un ateneo romano (78%). Tra i laureati, il 50% ha proseguito gli studi, restando (nove volte su dieci) nella Capitale. È qui che ha conseguito un master (38%) o un dottorato di ricerca (31%), oppure ha frequentato un corso di formazione (12%). Nel curriculum, soprattutto se ha superato i 35 anni, somma numerosi incarichi, sempre a tempo determinato, e sempre a contatto con le strutture di partito. Del resto, il 64% ammette che è grazie all’affiliazione politica che è stato assunto nella posizione attuale. Tra i più giovani, invece, il 43% proviene da esperienze professionali diverse, ad esempio da praticante in studi legali, stagista in azienda, o assistente universitario. Nel nuovo lavoro gli è richiesto di scrivere emendamenti (30%) e fare ricerca (19%), ma anche svolgere attività di segreteria (29%). Per queste mansioni – che lo tengono occupato di norma otto ore al giorno (36%), salvo emergenze – percepisce uno stipendio mensile che, in quattro casi su dieci, supera i 1500 euro lordi. Poco più di tre su dieci si accontenta di guadagnarne tra i 1000 e i 1500; mentre un 22% percepisce appena un rimborso spese (tra i 500 e i 1000 euro mensili).
È questo l’identikit del “portaborse” italiano, tracciato dall’ultimo rapporto pubblicato dall’Istituto di ricerche sulla Pubblica Amministrazione (IRPA), dedicato al “Personale addetto alla politica”. Un rapporto che fa luce su una figura professionale che, in Italia, è connotata da notevole ambiguità, a causa della resistenza dei partiti politici di rivelare numeri e mansioni dei propri collaboratori, e dell’assenza di una legge in materia. In effetti, è solamente dal novembre 2009 che il Parlamento ha subordinato la procedura di accreditamento (e dunque l’attribuzione del badge) alla registrazione del contratto di collaborazione da parte di deputati e senatori. Ancora oggi – rivela il rapporto – è impossibile conoscere con esattezza quanti sono e cosa fanno gli addetti alla politica. Per questo IRPA unisce all’analisi dei bilanci dei partiti e delle banche dati delle Camere un sondaggio a campione tra i collaboratori parlamentari. Dal rapporto si apprende che le spese per i collaboratori sono in crescita. Il volume dei contributi diretti a singoli e gruppi parlamentari per le spese di staff nel 2012 è stato di 97,5 milioni di euro (escluse le somme destinate alla retribuzione del personale delle fondazioni politiche e quelle versate direttamente dai partiti ai collaboratori). Circa un quarto, cioè 23 milioni di euro, sono andati al cd. “Fondo collaboratori”.
A conti fatti – denuncia IRPA – il Parlamento italiano ignora il numero dei collaboratori parlamentari che accedono alle strutture istituzionali. Rinuncia così all’esercizio dei poteri di verifica e sanzione. Vittime dell’opacità sono gli stessi collaboratori. L’enorme offerta (soprattutto dei più giovani) ne indebolisce la posizione negoziale. Retribuiti meno dei colleghi europei, e costretti a muoversi all’interno di gerarchie invisibili, i portaborse italiani sono esposti al rischio di abusi, malversazioni e pratiche di patronage.