L’economia della reputazione

I media si interessano spesso della reputazione dell’economia e degli economisti. E poiché l’economia è scienza non esatta, si può sostenere – e criticare – qualsiasi teoria, esaltando o distruggendo la reputazione di chi la sostiene.

Esiste però anche una “economia della reputazione” – concetto che non ha nulla a che vedere con le teorie sul funzionamento dei mercati, ma interessa il valore economico che si può attribuire alla reputazione che ciascuno di noi costruisce attraverso i Social Network. Ne parla un bel libro di Michael Fertik, Reputation Economy, in Italia pubblicato e distribuito da Egea. La teoria di Fertik è tanto affascinante quanto preoccupante. Il presupposto di base è che ciascuno di noi è percepito all’esterno in base alla reputazione che ha costruito di se. Non è una novità ovviamente. La reputazione è antica quanto lo sono i rapporti umani. La differenza fondamentale tra ieri e oggi sta nell’amplificazione della reputazione. Se, in passato, una buona o cattiva reputazione pubblica chiedevano impegno e azioni capaci di oltrepassare la soglia della comunità di riferimento di ciascun individuo, oggi nessuno è più tutelato dalla sicurezza dell’anonimato. Ci rendono vulnerabili i social network e le migliaia di informazioni che quotidianamente lasciamo sul web. Una semplice ricerca del nostro nome su Google è in grado di rivelare informazioni che credevamo sepolte. Una foto sconveniente, l’affiliazione a una associazione politica di cui non condividiamo più le idee, o semplicemente l’adesione a un evento o manifestazione che rivelano idee o orientamenti personali.

É questa l’economia della reputazione. Da una parte, si basa sul valore economico generato dalle informazioni, a beneficio soprattutto di chi è in grado di decifrarle. Le aziende ad esempio, che ricorrono sempre più spesso allo screening della reputazione online dei candidati per un posto di lavoro, eliminando quelli che condividono informazioni poco convincenti. Dall’altra parte, economia della reputazione si traduce nel potenziale che ciascuno di noi ha di trasformare le informazioni che lo riguardano in un capitale da sfruttare a proprio favore, per creare valore attorno a se, e vendere la propria immagine.

Teoria affascinante quella di Fertik. Lui stesso è socio fondatore di una società che si preoccupa di “ripulire” la reputazione di chi, per qualsiasi ragione, ha bisogno di risultare puro agli occhi della comunità. è un lavoro che chiede tempo e strategia. Poiché le informazioni sul web non si possono mai eliminare del tutto, è necessario sostituirle con informazioni positive. Per esempio creare account social in cui si trasmette l’immagine che si vuole dare di se. Strategie al limite della correttezza, che Fertik giustifica con la più semplice delle spiegazioni: nell’era della reputazione digitale non conta chi sei davvero, conta come appari.

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Direttore Area Istituzioni dell'Istituto per la Competitività (I-Com). E’ Professore in “Media, Activism & Democracy” presso la New York University – Florence, e Professore in “Global Advocacy” presso la Vrije Universiteit di Brussels.

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