Industria dei videogiochi in fermento tra innovazione, creatività e vocazione internazionale

letsplayL’industria del videogioco in Italia si trova in una fase di grande fermento creativo e produttivo, che può aprire a nuove possibilità di crescita, trasformazione e di sviluppo, soprattutto grazie alla nuova legge cinema e audiovisivo (Legge 14 novembre 2016, n. 220) varata dal Mibact, che per la prima volta, estende alcune misure importanti di sostegno anche al settore videoludico.

Si tratta del primo concreto riconoscimento istituzionale per un settore, ora incluso a pieno titolo nelle politiche culturali.

La produzione di videogiochi in Italia è una realtà che esiste da trent’anni. Per troppo tempo è stata trascurata o ignorata. In un Paese, che oggi più che mai può giocare un ruolo decisivo a livello internazionale nella produzione di contenuti e affrontare la sfida di mettersi al passo con gli altri, non si può continuare a ignorare le enormi possibilità economiche date dall’industria dei videogiochi, che può vantare un indotto globale di 100 miliardi di dollari, superando anche il cinema, che invece si assesta su 63 miliardi. L’Italia è tra i primi cinque posti per consumo di videogiochi in Europa, con un consumo che si aggira, con alti e bassi, attorno a un miliardo di dollari l’anno, con circa 29 milioni di videogiocatori, sebbene i volumi produttivi siano ancora ridotti rispetto alle grandi potenzialità per tutta la filiera, dall’ideazione, sviluppo e produzione di un videogioco fino alla distribuzione dei titoli realizzati. Un avere e propria esplosione dei consumi trainata dalla moltiplicazione dei device dalle console dedicate, ai pc e dispositivi portatili fino all’online gaming. Non a caso si è tenuto quest’anno a Roma un evento – Let’s Play – il primo Festival del videogioco in Italia, dove oltre a esposizioni, spazi ludici e commerciali, si sono tenuti panel di confronto e dibattito sullo stato attuale del settore e sulle sue speranze future.

In particolare nel panel relativo ai profili professionali e al riconoscimento delle competenze specifiche del settore, si è sottolineato più volte come il problema di fondo sta nel mancato riconoscimento del videoludico come una vera e propria industria creativa e culturale, capace di generare profitti consistenti oltre che prodotti di intrattenimento.

Si registra ancora una diffidenza generale verso questo segmento del mercato audiovisivo, spesso erroneamente considerato ancora un ambito ristretto ad un target molto giovane, a volte con contenuti troppo violenti o comunque senza alcun apporto culturale e artistico. Si tratta sicuramente di una forma di intrattenimento più recente rispetto al cinema e alla televisione, ma che riesce a coinvolgere e a entrare incisivamente nelle dinamiche di consumo, a far parte della vita sociale e culturale di chi ne usufruisce. Basti pensare a quanti videogiochi diventano prodotti transmediali e danno vita a una serie di opere cinematografiche, libri e fumetti dedicati, e viceversa.

L’industria italiana del videogioco, secondo i dati del Censimento Game developer italiani 2016 dell’Aesvi (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani), è costituita per più della metà da società di capitali e per la restante parte da liberi professionisti. Sorprendente il dato (oltre il 20%  delle imprese) relativo agli studi di sviluppo iscritti nel registro delle strato u innovative. Si stima un giro di affari di circa 40 milioni di euro con dati che indicano un interessante fermento creativo.Il 47% degli studi di sviluppo hanno una struttura lavorativa ridotta, da uno a cinque addetti, mentre il totale delle persone impiegate nel settore è poco più di 1000 (rispetto alle 700 registrate nel 2014), che dimostra una crescita, ma ancora minima per le sue opportunità. Sono poche le società che hanno la possibilità di assumere effettivamente nuovi dipendenti. Si tratta soprattutto di società molto vivaci ma di piccole dimensioni, che nascono in modo casuale e spontaneo attorno a un progetto, che solo per chi è più fortunato riesce ad avere una distribuzione commerciale. Gran parte degli studi di sviluppo producono tramite autofinanziamenti (il 56%), con una ridotta partecipazione di finanziatori esterni. Quindi quello che serve alle imprese sono soprattutto degli incentivi e dei sostegni economici, perché lavorare autonomamente sulla realizzazione di un videogioco significa comunque puntare su un prodotto rischioso, di cui non si può conoscere in anticipo né il riscontro in termini di apprezzamento da parte dei consumatori né di ritorno economico utile per un prossimo progetto. È evidente allora l’importanza del sostegno pubblico nel creare le condizioni più favorevoli per uno sviluppo equilibrato del mercato. Ci riferiamo alla leva fiscale (tax credit), che può da un lato rafforzare il comparto a livello domestico e dall’altro attrarre investimenti provenienti dall’estero. È proprio ad una maggiore apertura al mercato internazionale che l’industria videoludica in Italia deve puntare. C’è un terreno fertile dal punto di vista del talento e della passione e dello storytelling, ma è molto difficile trasformare queste caratteristiche in una professione. Spesso gli sviluppatori per sopravvivere sono costretti a lavorare su prodotti diversi dai videogiochi, come le applicazioni per il web, e destinare solo un minimo del loro tempo a quella che è la loro vera passione. Inoltre si evidenzia nel nostro paese un ritardo per quanto riguarda l’età in cui si entra nel mondo del lavoro, che è sicuramente più alta e in svantaggio competitivo rispetto al resto dei paesi europei. Il comparto dei videogiochi in Italia si muove in un ambiente giovane sia per età degli imprenditori che hanno in media 33 anni, sia per età delle imprese (oltre il 60% ha meno di tre anni di vita). Per avere più opportunità di lavoro occorre perlatro fornire competenze sempre più specifiche e soprattutto in linea con le esigenze lavorative, quindi creare anche uno stretto legame con il mondo delle imprese per avere sempre presenti i bisogni reali dell’ambiente produttivo. Un fattore decisivo è dato dal collegamento con il territorio. Si è visto infatti come sia più facile creare nuove opportunità formative e lavorative in quelle aree dove si sono costituiti dei veri e propri claster, (ad esempio l’Università di Milano, la cui Provincia concentra il 22% degli studi di sviluppo, seguita da quella di Roma con il 12%). Seguendo questa strada è più facile poter basare la propria attività formativa sulle imprese che operano direttamente in ambito locale.

A questo si deve accompagnare la creazione di un ambiente formativo che sia pratico e che simuli il più possibile l’ambiente produttivo reale, sviluppando sia le abilità tecniche che quelle relazionali, che permettono di apprendere un requisito importante come il lavoro in team. Altro punto debole della filiera, su cui la formazione diventa sempre più importante, è quello del business e del marketing, momento strategico in cui si devono avere le giuste capacità di fare impresa e trovare il modo più adatto per portare quel titolo sviluppato sul mercato distributivo e renderlo sostenibile. Molto spesso accade che chi realizza il prodotto poi non trovi la giusta collocazione imprenditoriale o sia a digiuno di nozioni di marketing strategico. Non è un caso che dalle aziende emerga un forte fabbisogno di esperti in campo economico, comunicativo e di marketing relazionale, che molto probabilmente aprirà la strada a nuove figure professionali specifiche e essenziali, di cui qualsiasi aziende dovrebbe dotarsi al proprio interno.

Si pensi all’aumento esponenziale, per effetto dello sviluppo tecnologico, dei brand touchpoint, ovvero dei punti di contatto tra il brand e il cliente, alcuni attivati dagli stessi consumatori. In questo panorama così interconnesso e multidirezionale è importante tener presente il consumatore tipo che si ha davanti, che si presenta esperto, con un super accesso alle informazioni, una visione globale dei mercati e una mentalità flessibile addirittura maggiore rispetto alle aziende. È un consumatore co-creativo, che chiede di partecipare alla produzione del prodotto, che riesce a intercettare nuovi mercati e generare nuovi prodotti. Il motore di tutto è ovviamente la passione, il coinvolgimento e il legame profondo che si viene a creare con il brand e che porta il consumatore a spendersi per la sua vendita e diffusione, meglio di chi promuove il brand per mestiere.

Nello scenario dell’industria videoludica finora presentato, il ruolo fondamentale di aggregatore e rappresentante del settore è svolto da Aesvi (l’Associazione di categoria), da sempre impegnata nel far comprendere le opportunità che possono provenire dal riconoscimento della produzione di videogiochi come industria creativa e culturale. Soprattutto in questo periodo ha preso in carico il compito più delicato e importante, il dialogo con il Mibact in merito al contenuto dei decreti attuativi della nuova legge e che definiranno le modalità per quanto riguarda l’accesso ai contributi e agli incentivi fiscali previsti.

Le imprese del settore nutrono grande speranze nella possibilità che questa nuova normativa, con i suoi provvedimenti, possa costituire quel trampolino di lancio per sviluppare, anche in Italia, un’industria videoludica più creativa, dinamica e redditizia.

 

 

Si ringrazia per la collaborazione Azzurra Teoli.