Conversazione con Antonio Iannamorelli, direttore operativo di Reti e autore di “Caporetto Management. Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni”. Il libro – edito da Lupi Editore – è stato presentato presso la Feltrinelli di Galleria Colonna a Roma, con Aldo Cazzullo, Giuliano Frosini e Simonetta Pattuglia.
C’è molto da imparare dai personaggi della storia, soprattutto per i manager di oggi, che dalle esperienze, dai caratteri e dal modo di comportarsi dei grandi del passato possono trarre elementi molto utili per la loro attività e, sopratutto, per i loro collaboratori e per l’organizzazione nella quale operano. E’ con questa chiave di lettura che il direttore operativo della società di relazioni istituzionali Reti, Antonio Iannamorelli, si è accostato a uno dei grandi nomi della storia italiana, quell’Armando Diaz che nel 1917, dopo la sconfitta di Caporetto, venne chiamato alla guida dell’esercito al posto di Luigi Cadorna. Un incarico che porterà un anno dopo alla grande offensiva di Vittorio Veneto, alla capitolazione dell’Austria e poi, alcuni mesi più in là, alla cosiddetta “vittoria mutilata” della conferenza di Parigi. Il libro di Iannamorelli – dal titolo “Caporetto Management. Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni” (Lupi Editore) – non è però ovviamente un trattato di storia, quanto, più che altro, un utilissimo vademecum per capire come ci si debba comportare nei momenti di difficoltà di una qualsiasi organizzazione – sia essa un’azienda, un’associazione o, finanché, un Paese – per riuscire a risollevarne le sorti.
Iannamorelli, qual è l’elemento principale che, a suo avviso, emerge dal libro?
Essenzialmente la differenza tra l’essere autoritari e l’essere autorevoli: due profili manageriali totalmente diversi. In particolare, ho analizzato le scelte fatte da Armando Diaz nel periodo che va dalla fine del 1917 al 1918 e le ho messe in parallelo con una serie di case history. Alcune mi sono trovato ad approfondirle durante il master in Economia e gestione della comunicazione e dei media a Tor Vergata mentre altre a viverle in prima persona come direttore operativo di Reti.
Qual è la differenza fondamentale tra autoritarismo e autorevolezza?
Essere autorevole presuppone una responsabilizzazione di tutti i soggetti che, direttamente o indirettamente, cooperano per la riuscita della mission aziendale. L’autorevolezza spinge dal basso, mentre l’autoritarismo impone dall’alto e lavora sulla sfera del dovere. L’autorevolezza, invece, opera in quella del volere.
Perché un buon manager deve essere autorevole?
È chiaro come in un clima autorevole cambi completamente l’approccio delle persone che lavorano al fianco del manager. Siano essi sottoposti o stakeholder, si sentono tutti investiti di una responsabilità comune.
Diaz era autorevole?
Diaz si è conquistato grande autorevolezza con il suo passato e con quello che ha fatto quando è diventato comandante: aveva un trascorso che già da sé raccontava una storia fatta di militanza in prima linea in mezzo ai soldati. Si è sempre occupato del benessere dei militari. E poi, dettaglio fondamentale, è stato uno dei primi figli dell’Italia unita.
Quest’ultima circostanza in che modo ha contribuito alla creazione dell’immagine di Diaz?
E’ nato nel dicembre del 1861 a Napoli, in una zona che sino all’anno prima non era Italia. Un elemento importantissimo per la comunità nazionale impegnata nella Prima Guerra Mondiale. Dopodiché, è ovvio che la sua autorevolezza sia derivata soprattutto da alcune sue lungimiranti scelte: ha valorizzato le competenze del suo staff, si è preoccupato della condizione dei soldati e delle loro famiglie, si è posto il problema di come gestire efficacemente i rapporti con la politica e la stampa.
Interessante notare come in fondo i meccanismi della comunicazione non siano molto cambiati da allora, nonostante le enormi differenze di contesto. E’ così?
Esattamente, oggi come allora un’informazione poco trasparente e credibile genera sfiducia e scetticismo e peggiora le situazioni di crisi al punto di trasformarle in un disastro. Invece, la trasparenza e la proattività da parte di chi affronta un momento difficile consente di controllare le informazioni. Questo perché più si comunica e più il soggetto che lo fa è in grado di dettare l’agenda di ciò che si dice. Al contrario, quando non si comunica si crea un vuoto informativo che viene poi riempito dalle fake news, dal passaparola, da notizie provenienti da fonti non confermate. E tutto ciò finisce inevitabilmente per peggiorare la situazione.
Ci sono anche aspetti apparentemente di scarsa rilevanza ma in realtà molto importanti come l’approccio alla fotografia. Com’è cambiato con Diaz?
Mentre Cadorna cercava di reprimerne l’utilizzo in zone di guerra attraverso misure repressive, Diaz la incoraggiava e premiava addirittura con attività di condivisione che sembrano anticipare le piattaforme social di oggi. Con la fotografia si raccontava la verità del fronte e si responsabilizzavano gli italiani.
La parola “Caporetto” è diventata di uso comune per indicare una disfatta. Forse anche di più di quanto non dicano i fatti del 1917. Perché è diventato il sinonimo per eccellenza di fallimento?
A trasformare Caporetto in una disfatta non è stata la parte militare, ma la comunicazione. Cadorna fece un comunicato per dire che la colpa dello sfondamento del fronte era dipeso dai soldati dell’esercito “vili e codardi“: una frase che, com’è semplice intuire, ha colpito al cuore il Paese. Ogni madre, ogni padre, ogni comunità locale aveva un soldato al fronte. E non solo erano costretti a offrire la vita di quel giovane, ma dovevano pure sentirsi dire dallo Stato – per il quale quel ragazzo stava morendo – che lui era un vigliacco, mentre i generali si auto-assolvevano. In generale, scaricare la responsabilità su altri fa crollare il sistema e rende inevitabile la sostituzione del manager. In quel caso Cadorna.
Un manager di oggi, o chi si affaccia alla professione manageriale, che tipo di spunto può trarre da questa lettura?
Che bisogna essere gentili, come ha detto Philip Kotler nella sua recente visita in Italia. La prima preoccupazione del manager deve essere che i suoi lavoratori, i suoi clienti e i suoi consumatori vivano in un ambiente e in un contesto positivo e che percepiscano l’azienda e i valori che l’animano come un pezzo fondamentale di quella realtà.