“Altro che matrigna, più morbida di così l’Europa non è mai stata: la paragonerei, invece, a un tutor“. Parola dell’ordinario di Economia politica dell’Università di Roma Tor Vergata Leonardo Becchetti, che ha di recente pubblicato per Rizzoli il libro dal titolo “Neuroscettici. Perché uscire dall’euro sarebbe una follia” (qui, su Formiche.net, le foto del confronto con Corrado Ocone ospitato dall’Istituto per la Competitività, I-Com). D’altronde, secondo l’economista, l’Unione sta “solo cercando di evitare quello che per la nostra economia rappresenta il vero pericolo: la mancanza di fiducia da parte dei mercati internazionali. Ci segnala che il superamento di certe Colonne d’Ercole potrebbe comportare conseguenze finanziarie anche gravissime“. Per questa ragione Becchetti è convinto che l’Italia – invece di puntare continuamente il dito contro Bruxelles – dovrebbe soprattutto impegnarsi a sciogliere i tanti nodi strutturali che ne bloccano la crescita. Vale a dire, in particolare, “gli oltre 100 miliardi di evasione fiscale e di investimenti pubblici finanziati ma non cantierati: sono questi sono i veri problemi del Paese. Non abbiamo bisogno di più soldi dall’Europa ma di imparare a usare bene le risorse che abbiamo. Un tema che assilla pure il nostro ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria“. Di cui Becchetti è amico e collega all’università romana di Tor Vergata.
Intanto però, professore, in questa campagna elettorale si è parlato pochissimo di Europa e comunque difficilmente in termini positivi. Perché?
Purtroppo è una speculazione strategica nel senso che sia la maggioranza che l’opposizione pensano che non convenga utilizzare troppo questo tema. La prima perché sull’idea di battaglia contro l’Europa alla fine si è scornata e ha pagato dazio con lo spread e con il deficit. E l’opposizione perché oggi dire più Europa non è politicamente attraente: questo tema agli occhi della opinione pubblica non scalda. Non siamo riusciti a trovare una chiave che riaccenda la passione dei cittadini.
Ma l’Europa, a suo avviso, cosa avrebbe dovuto fare?
Sarebbe dovuta essere più decisa nel battere un colpo. Avremmo avuto bisogno di una campagna elettorale più forte sull’idea di Europa sociale e solidale: i partiti europeisti avrebbero potuto far leva di più sull’aspetto emozionale di questi obiettivi.
Secondo lei quali sono gli interventi più urgenti cui l’Europa dovrebbe porre mano nella sua governance?
Innanzitutto dovrebbe aumentare i poteri del Parlamento europeo che oggi non può neanche proporre leggi. E poi ci vorrebbe una maggiore armonizzazione fiscale perché andare ognuno per conto proprio produce un’inevitabile corsa al ribasso che alla fine danneggia tutti. Inoltre, sarebbe importante aumentare il bilancio comunitario – che oggi è troppo ridotto – e garantire la riassicurazione da parte dell’Europa delle reti nazionali di protezione contro la povertà e la disoccupazione.
Com’era inimmaginabile fino a qualche mese, anche i cittadini inglesi saranno chiamati a eleggere i loro rappresentanti al Parlamento europeo. Che ne pensa?
Quanto sta accadendo nel Regno Unito con la Brexit mi pare un chiaro spot a favore dell’Europa. Non hanno la minima idea di cosa fare. Uso questa metafora: è come un marito che lascia la moglie e poi la prega di essere riammesso a casa in qualità di domestico. Di fatto, adesso, vorrebbero in qualche modo rientrare con un accordo preferenziale ma chiaramente è difficile. E poi c’è chi non vorrebbe comunque un’intesa. Per non parlare delle tensioni che si riaccendono in Irlanda del Nord. (qui l’approfondimento di Giulia Palocci)
Nonostante questa situazione di evidente confusione, sembra che gli anti-europeisti dello Ukip si apprestino a fare bottino pieno alle europee. Come se lo spiega?
Ricordiamoci che la Brexit ottenne il 51% dei voti e che adesso Nigel Farage è accreditato circa del 30. Vuol dire che non è affatto scontato che la maggioranza dei britannici sia ancora favorevole alla Brexit: se si rivotasse oggi, non escluderei che i contrari possano prevalere.
Lei ha scritto un libro in cui confuta una a una tutte le tesi dei no-euro. Teme che dopo il voto di domenica il dibattito sulla moneta unica possa nuovamente esplodere?
Fortunatamente ormai neppure Marine Le Pen vuole più uscire dall’euro ma parla solo di cambiare l’Europa. Eppure, c’è ancora tanta gente che lo vorrebbe, nonostante non abbia alcun senso. Basta pensare, innanzitutto, che molti Paesi europei e dell’eurozona fanno molto meglio di noi: dovremmo imparare dagli altri. L’euro non centra nulla. In particolare, dietro l’idea di una non auspicabile Italexit ci sono tanti errori concettuali.
Qual è il primo che le viene in mente?
Che con una propria moneta e svalutando si possa ripartire. Falso. La parte che va bene dell’economia italiana sono proprio le esportazioni e una svalutazione del cambio non migliorerebbe affatto la situazione perché avremmo una riduzione del prezzo dell’export e un aumento del costo dell’import.
E poi?
Non è vero che saremmo più liberi con una nostra eventuale valuta. Semmai è il contrario. Eravamo meno liberi quando non eravamo nell’euro perché bisognava inseguire la politica economica tedesca: se la Germania alzava i tassi, eravamo obbligati a inseguirli. Da quando siamo entrati nell’euro, invece, abbiamo almeno in parte potuto co-determinare la politica economica e monetaria. Non a caso l’idea che la solo la Germania è un altro mito: la Bce ha sempre preso decisioni con il voto contrario tedesco.
L’errore più grave commesso dai no-euro qual è a suo avviso?
Pensare che la ricchezza di un Paese sia data dalla capacità di stampare moneta e che il sovranismo ci ridarebbe la ricchezza. Non è così: la ricchezza di un Paese è fatta dall’economia reale, dalla somma dei sudori e delle competenze dei cittadini. Stampare più moneta vorrebbe dire solo produrre inflazione e aumentare l’import: fenomeni che condurrebbero inevitabilmente a un indebitamento in valuta estera in grado di mettere in ginocchio il Paese.