Le strategie Mediaset e la difesa degli interessi industriali nazionali

Bollore-berlusca-633x350Quanto è opportuno difendere gli interessi industriali nazionali – veri o presunti, con quali strumenti e fino a che punto spingersi in questa difesa? Una questione sempre aperta in Italia, che recentemente ha coinvolto anche il settore audiovisivo.

L’antefatto è noto: ad aprile 2016, Mediaset e Vivendi hanno annunciato un’alleanza strategica tra i due Gruppi. Il patto si sarebbe dovuto articolare su tre punti: coproduzioni su scala internazionale, sviluppo di una piattaforma pan-europea di streaming di contenuti on demand, l’acquisto da parte di Vivendi delle atività di pay TV di Mediaset Premium. Concretamente, il contratto prevedeva che Mediaset cedesse il 3,5% di azioni proprie (sulla media degli ultimi 3 mesi dei corsi di Borsa valutato circa 137 milioni), ricevendo in cambio lo 0,54% del capitale sociale del gruppo francese. Contemporaneamente RTI avrebbe ceduto a Vivendi il 100% del capitale sociale di Mediaset Premium (compresa la quota di Telefònica) a fronte della cessione da Vivendi a RTI del 2,96% di azioni proprie, per arrivare al totale del 3,5%. Tuttavia in seguito Vivendi, adducendo “divergenze significative nell’analisi dei risultati di Mediaset Premium” ha ritirato la propria offerta, non dichiarandosi disposta ad acquistare il 100% di Premium, aprendo un contenzioso che troverà soluzione in sede giudiziale. Il rifiuto di Vivendi a proseguire nell’operazione adduce quale motivazione il fatto che “il business plan di Mediaset Premium che è stato presentato e che prevede il raggiungimento del break even nel 2018 è basato su ipotesi irrealistiche confermate dal rapporto di due diligence della società di consulenza Deloitte.

Lo scorso 12 dicembre Vivendi ha sferrato il suo attacco a Mediaset iniziando a rastrellare sul mercato i titoli del gruppo televisivo di Cologno Monzese e in pochi giorni è salita al 30%, soglia oltre la quale scatta l’Opa obbligatoria, collocandosi come secondo azionista di Mediaset, dietro Fininvest. Nella scalata la società francese guidata da Vincent Bollorè ha speso più di un miliardo e 200 milioni. Nel frattempo Fininvest ha presentato alla Consob un esposto in cui ha accusato i francesi di aver manipolato il mercato e abusato di informazioni privilegiate. Nell’esposto Fininvest ha chiesto alla Consob di agire secondo i suoi poteri. L’Agcom il 21 dicembre ha avviato un procedimento di verifica sulla scalata dei francesi e solo pochi giorni fa, a seguito di voci che la volevano in procinto di bloccare la scalata di Vivendi, si è sentita in dovere di dichiarare che tale istruttoria è ancora in corso.

Dietro a questi fatti di cronaca si legge una vicenda ben più complessa, che coinvolge – o dovrebbe coinvolgere – diplomazie, politiche industriali, difesa degli interessi nazionali (e privati).

Infatti, di fronte alle aggressive iniziative di Vincent Bolloré, capo di Vivendi, si sono levate voci indignate, che reclamavano l’intervento del governo per fermare questo attacco agli interessi nazionali, appunto. In realtà il governo non può intervenire su società di cui non sia azionista, a meno che non siano “messi a rischio gli interessi nazionali da operazioni di mercato che riguardano aziende operanti nei settori strategici della difesa e sicurezza nazionale o che possiedono asset di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (ma in questo caso gli asset strategici che giustificano un intervento dello Stato sarebbero solo le reti di trasmissione).

Si tratta del cosiddetto golden power, introdotto con d.l. 15 marzo 2012, n.21, convertito con legge 11 maggio 2012 n. 56.

D’altra parte, nessun interesse strategico aveva impedito di cedere quote di controllo di Telecom Italia alla spagnola Telefònica nel 2007 (nel 2013 la cessione sarebbe diventata totale), e alla stessa Vivendi nel 2015.

Inoltre, trattandosi Vivendi di un soggetto comunitario, il governo non potrebbe neanche opporsi all’acquisto di partecipazioni, per cui i toni forti scelti da esponenti dell’esecutivo, tra cui Calenda e Guerini e lo stesso premier Gentiloni) hanno più il senso di una moral suasion, magari anche un po’ brusca, nei confronti di un soggetto economico che è anche il primo azionista di Telecom e che ha un peso rilevante in Mediobanca.

Poiché non é stata lanciata alcuna Opa, escludendosi pertanto l’intervento di Consob, è proprio su questo intreccio proprietario tra Telecom-Mediaset-vivendi che i principali azionisti di quest’ultima, vale a dire Fininvest, vale a dire la famiglia Berlusconi, stanno giocando la propria partita. Infatti, il Testo Unico sulla Radiotelevisione, figlio della famigerata legge Gasparri, stabilisce che le imprese di comunicazioni elettroniche che detengono nel mercato italiano una quota superiore al 40%, “non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni (Sic) ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo”.

Il compito di valutare le quote di mercato in questione spetta ad Agcom, che già in apertura di istruttoria, a dicembre 2016, ha specificato che Telecom Italia detiene il 44,7% della quota nel mercato prevalente delle telecomunicazioni (che è solo uno dei mercati che compongono quello più ampio delle comunicazioni elettroniche, di cui in effetti Telecom risulta principale operatore), mentre Mediaset ha raggiunto, nel 2015, una quota del 13,3% del Sic.

Al momento dunque non vi sarebbero fondamenti per porre il veto a questa proprietà incrociata, ma l’istruttoria procede per valutare la quota complessiva di Telecom nel mercato delle comunicazioni elettroniche.

In ogni caso, queste stesse regole offrono a Vivendi una via d’uscita: l’operazione sarebbe possibile a condizione di ridurre il perimetro industrial di Mediaset, liberandosi proprio di quella Premium che èstato I primo pommo della Discordia. A facilitare i francesi è il fatto che, da quest’anno, il nostro Garante dovrà includere nel mercato editoriale classico (giornali, radio, tv) anche i colossi della Rete, come Facebook e Google. In un mercato editoriale che si allarga a Internet, il peso specifico di Mediaset (senza Premium) si abbasserebbe sotto la quota limite del 10 per cento.

Ed è ancora Premium al centro del piano industrial di Mediaset, presentato questa settimana a Londra, e che può essere riassunto in questi termini: L’azienda punta a rendere l’attività della pay-tv “sostenibile indipendentemente dall’esito delle aste sui diritti del calcio”. Sotto il profilo dei contenuti, Premium mira a sfruttare gli accordi in essere con altre piattaforme in particolare over-the-top per quanto riguarda le serie e il cinema mentre avrà “un approccio opportunistico” sul calcio. Nel corso del 2017 l’intenzione è quella di mantenere la posizione di editore di canali “non sportivi” puntando a una distribuzione multi-piattaforma. e inoltre è prevista la separazione della piattaforma tecnologica dall’attività editoriale (quella di produzione di canali tv).

La piattaforma a pagamento di Mediaset continuerà a vivere, almeno per il momento, ma si concentrerà sui film e sulle serie tv sfruttando gli accordi in essere su tutte le piattaforme. In questo modo conta di aumentare la redditività al 2020 di 200 milioni di euro.

La novità riguarda piuttosto la disponibilità a cedere in affitto parte della propria banda a chi volesse trasmettere. D’altra parte il ragionamento in casa Mediaset è chiaro: dopo aver investito molto negli ultimi anni anche per sviluppare l’alta definizione lo spazio disponibile è molto e di qualità; rinunciando al calcio, però, gran parte della banda andrebbe sprecata. Ecco allora l’idea di metterla a disposizione di altri editori pronti a investire.

Altra importante novità prevede, entro la fine del 2017, il lancio di una nuova piattaforma gratuita, ma con pubblicità, con la library dei contenuti Mediaset dei canali in chiaro fruibili “on demand” da vari dispositivi connessi. La nuova piattaforma replicherà in pratica il modello in streaming di Infinity, che è invece a pagamento.

Fin qui abbiamo visto la vicenda. Tornando all’interrogativo iniziale, vale ricordare che proprio in questi giorni il governo si sta muovendo in direzione delle aziende strategiche chiedendo chiarezza sui piani di investimento. Potrebbero essere fissati nuovi obblighi, in modo particolare per operazioni di fonte extra Ue o effettuate da imprese di Paesi che non rientrano tra le economie di mercato (la Cina ad esempio).E si ipotizza una revisione del golden power, che, dalla sua istituzione, è stato utilizzato solo in poche operazioni minori, secondo quanto afferma un rapporto del governo sul tema. Il quale, pur senza citare il caso Mediaset-vivendi, si pone l’obiettivo di «assicurare continuità alla protezione degli assetti strategici nazionali attraverso la tutela nei confronti di manovre acquisitive che sottendono all’obiettivo di sottrarre tecnologie e know how industriale e commerciale essenziale per la competitività del sistema Italia»

Il mondo sta cambiando velocemente, osserva il rapporto di Palazzo Chigi, e anche gli strumenti di difesa devono aggiornarsi. La relazione, citando un’indagine di Kpmg, ricorda che nel 2015 sono avvenuti acquisti di imprese italiane dall’estero per 32,1 miliardi contro acquisizioni di imprese estere da parte di soggetti italiani per appena 10 miliardi. Ovviamente, andrebbe esaminata la natura degli investitori e degli investimenti: benvenuti quelli realmente produttivi, grande cautela in alcuni selezionati casi in cui gli investimenti sono di natura meramente finanziaria e in cui l’interesse nazionale è messo a rischio.

Dove si colloca il caso Mediaset-Vivendi? Possiamo dire che è giusto difendere gli interessi nazionali, anche se probabilmente esistono mezzi più efficaci rispetto a creare difficoltà politiche contro le acquisizioni delle nostre imprese da parte di stranieri, rischiando di contribuire all’escalation di una guerra commerciale. Ma soprattutto la difesa di aziende ritenute strategiche va operata nel quadro di una politica industriale di ampio respiro che guardi e sposi i grandi mutamenti dell’economia digitale – e le sue principali tendenze quali consolidamento, integrazione e convergenza – puntando a fare del nostro mercato un punto di riferimento per lo sviluppo e la produzione di contenuti esportabili e di alta qualità.  A prescindere dall’esito finale della vicenda, siamo convinti che Mediaset possa e debba giocare un ruolo da protagonista come motore di creatività ed innovazione nell’industria europea ed internazionale dei contenuti audiovisivi.

(Articolo redatto in collaborazione con Giulia Berni)