Il coronavirus, l’Europa e il caso Ungheria


Articolo
Camilla Palla
Ungheria

In situazioni di emergenza come quella che sta vivendo il mondo intero anche le democrazie più solide si ritrovano a mettere in atto misure che le rendono imperfette con l’obiettivo di garantire la sicurezza dei propri cittadini. I governi d’Europa si sono trovati ad adottare provvedimenti che senza dubbio hanno comportato sacrifici, sia dal punto di vista economico che sociale. E sono stati numerosi gli esempi di comportamenti virtuosi, di collaborazione, sforzi comuni intrapresi tenendo bene a mente quell’insieme di valori e principi su cui l’Unione stessa si fonda. Allo stesso tempo, tuttavia, non sono mancate reazioni estreme, che male si adattano allo spirito dall’acquis communautaire, da parte di Paesi che da sempre faticano a conformarsi pienamente a tali principi e valori di cui l’Unione è esempio in tutto il mondo. “Alla più perfetta delle dittature preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie” diceva Sandro Pertini. Ma è proprio in momenti di crisi come questo che non bisogna abbassare la guardia.

Lo scorso 30 marzo il Parlamento ungherese, composto per due terzi dal partito Fidesz, ha approvato una legge per la protezione del Paese dal coronavirus che prevede il conferimento di poteri straordinari al governo, guidato dal primo ministro Viktor Orbán. Il mandato, che permette al leader ungherese di governare per decreto, non prevede alcuna scadenza temporale. Si tratta di una misura che rischia di compromettere ulteriormente lo stato di diritto in Ungheria: la legge contiene ulteriori misure, quali il controllo centralizzato sulle decisioni delle autonomie locali, la sospensione delle elezioni e forti limitazioni alla libertà di stampa. In particolare, è prevista la reclusione fino a 5 anni per la pubblicazione di notizie – fatti considerati falsi o distorti – che interferiscano con la protezione del Paese. Le nuove misure introdotte possono essere revocate solo attraverso un’ulteriore consultazione parlamentare a maggioranza di due terzi e con firma presidenziale.

Questa disposizione è di fatto un prolungamento dello stato di emergenza dichiarato lo scorso 11 marzo dal governo in risposta all’epidemia. Se da un lato misure drastiche sono richieste per contrastare una crisi di tale portata, nel caso dell’Ungheria il provvedimento elimina i già pochi contrappesi costituzionali rimasti. In effetti la Corte costituzionale, l’organo preposto al controllo dell’attività del governo, avrebbe la prerogativa di modificare la legge e sospendere le misure adottate. Tuttavia di fatto questa si è progressivamente vista privare dei propri poteri negli ultimi anni da un punto di vista giuridico. Quanto alla sua composizione, è mutata negli ultimi anni con la sostituzione sistematica dei giudici con figure più vicine al governo.

A essere compromessi in nome dell’emergenza sono la separazione dei poteri, la libertà di stampa e associazione e l’indipendenza della magistratura. Una serie di fattispecie che costituiscono una piena violazione dei valori comuni previsti dall’articolo 2 del trattato sull’Unione europea (TUE) e su cui si fonda l’ordinamento giuridico dell’Unione. Il rischio è che la condotta di Orbán possa costituire un precedente e contagiare altri Paesi, mettendo l’Unione nella posizione di dover contenere un ulteriore virus e attuare una vera e propria quarantena politica.

Lo strumento a disposizione in questo caso è la procedura prevista dall’articolo 7 del TUE. Su proposta di due terzi degli Stati membri, della Commissione o del Parlamento europeo, il Consiglio può di fatto accertare la presenza di violazioni gravi e procedere con l’attivazione della clausola di sospensione prevista dal trattato. Tuttavia, come già successo in precedenza, il Consiglio ha invece optato per una via più morbida e diplomatica, preferendo la coesione alla rottura. Un atteggiamento che ha attirato fortissime critiche da parte dell’Europarlamento, che già lo scorso autunno aveva prodotto una risoluzione in cui invitava il Consiglio a valutare l’esistenza di violazioni gravi da parte dell’Ungheria. D’altronde un approccio più duro richiederebbe misure drastiche quali la sospensione di alcuni diritti e determinate prerogative del Paese in qualità di Stato membro – la sospensione del voto in seno al Consiglio, ad esempio – che richiederebbero in ogni caso un’unanimità irraggiungibile a causa del veto che la Polonia opporrebbe. Per il momento l’azione del Consiglio è consistita nell’identificare la procedura per le future audizioni, che fanno seguito a quelle di settembre e dicembre 2019, e che tuttavia non avevano visto la partecipazione del Parlamento, viziandone l’effettività e l’efficacia.

Per quanto riguarda la Commissione, Berlaymont ha avviato numerose procedure nei confronti di Polonia e Ungheria già a partire dal 2015, tutte relative alla necessità di accertare la violazione grave da parte dei due Paesi dei valori definiti all’articolo 2 del trattato sull’Unione europea. Nei giorni scorsi il presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha espresso preoccupazioni rispetto alle ultime vicende: pur ribadendo che in questa situazione senza precedenti sia legittimo che gli Stati membri adottino misure straordinarie per proteggere i propri cittadini “è della massima importanza che queste non vadano a scapito dei nostri principi e valori fondamentali, come stabilito dai trattati“. Von der Leyen, pur non facendo riferimento diretto all’Ungheria, ha inoltre sottolineato che la Commissione europea intraprenderà misure per monitorare le disposizioni di emergenza attuate in tutti gli Stati membri e la loro applicazione. In linea con la Commissione, lo scorso primo aprile, 13 Paesi europei, tra cui l’italia, hanno firmato una dichiarazione congiunta, invitando anche il Consiglio Affari generali a occuparsi della questione.

Reazioni decisamente più dure sono arrivate dal gruppo del Partito popolare europeo (PPE), di cui Fidesz fa parte. Già lo scorso 20 marzo, il gruppo parlamentare aveva preso la decisione di sospendere il partito e, a seguito della nuova legge introdotta dall’Ungheria, ben 13 partiti che fanno parte del gruppo hanno firmato una lettera in cui si fa richiesta al presidente del Ppe Donald Tusk di procedere all’espulsione per violazioni gravi dei principi fondanti della democrazia liberale e dei valori europei (ex articolo 9 dello Statuto del gruppo). In una dichiarazione Tusk aveva già definito la condotta di Orbán “politicamente pericolosa e moralmente inaccettabile“.

La prossima assemblea del Partito popolare europeo, prevista per giugno, dovrà esprimersi sulla questione e fino ad allora, dunque, non seguiranno sviluppi significativi in termini di provvedimenti interni al gruppo. Senza dubbio ci si aspetta una reazione più decisa da parte del Consiglio e una maggiore trasparenza e cooperazione inter-istituzionale per assicurare il più possibile che, in un momento così difficile, a farne le spese non sia la democrazia.

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