L’open strategic autonomy e le dipendenze strategiche dell’industria europea


Approfondimento
Michele Masulli
strategiche
Credit: Pixabay

LA LEZIONE DEL COVID-19 E L’AUTONOMIA STRATEGICA APERTA

La pandemia da Covid-19 ha evidenziato, per la prima volta in misura eccezionale, la vulnerabilità delle catene globali di fornitura. Colli di bottiglia, carenza di materie prime e beni intermedi e ritardi nell’approvvigionamento hanno messo a dura prova numerosi comparti dell’industria. L’attuale fase di rialzo del prezzo delle commodity rappresenta un ulteriore campanello d’allarme per le filiere produttive. Le criticità emerse nelle fasi di lockdown generalizzato nelle diverse regioni del mondo, seppure con difficoltà che si ripeteranno nella stessa maniera straordinaria, non costituiscono, tuttavia, un fenomeno superato. Al contrario, possono fungere da occasione per affrontare problematicità dall’impatto potenziale ragguardevole per imprese e consumatori.

Anche a questo fine, nelle politiche europee va facendosi spazio il concetto di “open strategic autonomy”, ossia la capacità degli Stati europei di agire in modo autonomo e fare affidamento su risorse proprie negli ambiti di rilevanza strategica, ma allo stesso tempo di cooperare, quando necessario, con i partner esteri. In questo modo, l’Unione europea intende rafforzare la propria indipendenza nei settori di maggiore rilevanza per i propri interessi, ma sempre in maniera “aperta”. Né l’Ue potrebbe pensare a svolte autarchiche. In primis a causa di una nota carenza di materie prime e risorse energetiche, ma altresì in quanto costituisce una delle aree del mondo più integrate nei flussi commerciali internazionali. Rappresenta, da questo punto di vista, il principale mercato globale, la maggiore area esportatrice e il più significativo partner commerciale per numerosi Stati. Il ruolo di primo piano che l’Ue gioca nel commercio internazionale, pertanto, non contempla possibilità di chiusure all’interno dei propri confini.

LE MATERIE PRIME CRITICHE

È necessario, dunque, ridurre i rischi di fornitura e accrescere il controllo europeo (“la sovranità” si potrebbe dire, ricorrendo agli obiettivi della nuova presidenza francese del Consiglio Ue) sulle filiere produttive di maggiore interesse per sviluppare un potenziale industriale interno all’Unione. Tale necessità implica un’analisi attenta del fabbisogno di materie prime. In questo ambito, già dal 2011 la Commissione ha elaborato una lista di quelle critiche per l’Ue, che viene aggiornata ogni tre anni. Questa tipologia di materie prime viene individuata in base alla rilevanza che esse rivestono per il sistema produttivo europeo (in termini di applicazioni finali e di peso sul valore aggiunto dell’Unione), alla possibilità e alla convenienza di individuare materie sostitute e alla concentrazione dell’offerta. Se la prima lista di materie prime critiche, elaborata nel 2011 (a seguito della “Raw materials initiative” del 2008), conteneva 11 elementi, l’ultimo aggiornamento, redatto nel 2022, ne conta 20.

Si evidenziano, in particolare, livelli estremamente alti di concentrazione dell’estrazione, raffinazione e fornitura delle materie critiche. La Cina, ad esempio, soddisfa il 98% della domanda europea di terre rare, la Turchia copre il 98% della richiesta di borato, il Sud Africa fornisce più del 70% del platino impiegato in Europa e una quota ancora più consistente dei metalli del gruppo del platino iridio, rodio e rutenio. Inoltre, l’Unione europea si affida a singole imprese per soddisfare il fabbisogno di afnio e stronzio. L’esposizione legata a tassi così rilevanti di concentrazione è spesso aggravata da scarse possibilità di sostituzione e ridotti tassi di riciclaggio.

I Paesi maggiori fornitori di materie prime critiche per l’Unione europea

Fonte: Commissione europea

LE DIPENDENZE STRATEGICHE DELLE FILIERE PRODUTTIVE

Le dipendenze strategiche dell’Unione non riguardano solo le materie prime, ma coinvolgono i prodotti importati. Nello specifico, uno studio preliminare della Commissione individua su 5.200 beni importati, 137 prodotti (che costituiscono il 6% del valore totale delle importazioni dell’Unione) in settori sensibili per cui l’Ue risulta fortemente dipendente, di cui 34 sono più vulnerabili a causa di ridotti margini di diversificazione e sostituzione con beni europei. Anche in questo caso, si evidenzia una forte concentrazione delle dipendenze strategiche. Più della metà di queste deriva dalla Cina (52%), seguita dal Vietnam (11%), dal Brasile (5%) e dalla Corea del Sud e da Singapore (entrambi con il 4%). Quote del 3% sono detenute da Stati Uniti, Regno Unito e Giappone. Si osserva, perciò, una preponderanza dell’Asia Pacifico nelle forniture strategiche europee e, di contro, un peso limitato dei Paesi occidentali.

Si tratta di dipendenze che interessano particolarmente i comparti industriali ad alta intensità energetica (che mostrano una richiesta elevata di materie prime), del settore sanitario (si pensi alla catena di fornitura dei principi attivi farmaceutici) e delle filiere rilevanti per l’innovazione digitale e la transizione energetica. In quest’ultimo campo, sono molteplici gli ambiti produttivi interessati: dai pannelli solari alle turbine eoliche, dall’idrogeno all’illuminazione efficiente, dalle batterie al litio ai semiconduttori, passando per i veicoli elettrici. Appare chiaro come gran parte delle tecnologie pulite, fondamentali per alimentare il percorso di decarbonizzazione, siano interessate da dipendenze strategiche. Si viene a creare, quindi, un divario importante tra le ambizioni delle politiche energetiche e climatiche e la disponibilità di materie prime essenziali per realizzarle.

LA VULNERABILITÀ DEGLI STATI UNITI

Invero, non è soltanto l’Unione a ritrovarsi esposta rispetto a possibili strozzature nell’offerta di materie e prodotti critici. Nel giugno scorso la Casa Bianca ha pubblicato gli esiti di un’analisi sulle catene del valore strategiche, da cui emerge come la quota statunitense sulla manifattura globale di semiconduttori si sia contratta dal 37 al 12% negli ultimi vent’anni, con una percentuale ancora più ridotta se si considerano le tecnologie più avanzate di semiconduttori. Il report Usa, inoltre, sottolinea come Cina e India controllino parte consistente della filiera dei principi attivi farmaceutici. Per questo le autorità statunitensi evidenziano la necessità di adottare azioni finalizzate a sostenere la produzione domestica di prodotti critici, ridurre la dipendenza dall’estero e rafforzare la competitività della propria economia.

LE AZIONI DELL’UNIONE EUROPEA

Da parte europea, la Strategia industriale diffusa nell’ambito dello European Green Deal è stata rivista per tenere conto delle conseguenze legate al Covid-19. Insieme alla Strategia europea per l’economia circolare disegna due dei principali assi di azione per ridurre l’esposizione alle importazioni estere e incrementare un’autonoma capacità produttiva. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e le politiche di stoccaggio sono linee da perseguire. Alleanze transnazionali, piattaforme tecnologiche, progetti di interesse comune che mettano insieme istituzioni, centri di ricerca, grandi aziende, investitori, imprese innovative e consumatori, come già in essere in vari ambiti (dalle batterie all’idrogeno) possono rappresentare un volano notevole per accelerare lo sviluppo di nuove soluzioni produttive.

La costituzione dell’Osservatorio delle tecnologie critiche contribuirà senz’altro a una più approfondita consapevolezza delle criticità strategiche che segnano i settori di attività industriale continentali. Le pratiche di economia circolare, inoltre, sono fondamentali per una regione povera di materie prime. Pertanto, spazi industriali rilevanti si aprono per i processi tecnologici di separazione, recupero, riciclo e produzione di materie prime.

L’attrazione di investimenti produttivi è un obiettivo ragguardevole: che Intel possa stabilire in Italia un impianto di produzione di semiconduttori è una notizia significativa. Nel complesso, emerge l’intenzione da parte delle istituzioni europee di rafforzare la presenza del Vecchio continente nel mondo. L’iniziativa del “Global Gateway”, che mira a promuovere la costruzione di infrastrutture nei settori digitale, energetico e dei trasporti e a rafforzare i sistemi sanitari, di istruzione e di ricerca in tutto il mondo, mobilitando fino a 300 miliardi di euro al 2027, suona come una risposta alla “Belt and Road Initiative” cinese e segna forse un salto di qualità nelle politiche europee di cooperazione internazionale.

Ricopre attualmente il ruolo di Direttore dell’area Energia presso l’Istituto per la Competitività (I-Com), dove è stato Research Fellow a partire dal 2017. Laureato in Economia e politica economica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, successivamente ha conseguito un master in “Export management e sviluppo di progetti internazionali” presso la Business School del Sole24Ore. Attualmente è dottorando di Economia applicata presso il Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa principalmente di scenari energetici e politiche di sviluppo sostenibile, oltre che di politiche industriali e internazionalizzazione di impresa.

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