Nella settimana del G8, del vertice dei ministri finanziari europei che avrebbe dovuto dare il via libera all’Unione bancaria e della pubblicazione in Gazzetta del Decreto Fare, fa più notizia, almeno in Italia, l’annuncio da parte di Mediobanca di voler uscire dai patti di sindacato delle principali società alle quali partecipa (Generali, RCS e Telecom Italia). Da un lato, infatti, la sostanziale vacuità del G8, il fallimento del vertice europeo, nonostante le 18 ore consecutive di fitti negoziati, e il minimalismo bulimico del Decreto Fare testimoniano una sostanziale incapacità della politica, almeno in questo frangente, di assumere decisioni forti e coraggiose. Una delle poche contenute nel Decreto Fare (insieme a molti provvedimenti anche condivisibili ma di impatto per lo più modesto) era l’introduzione in via sperimentale di un indennizzo per i ritardi della pubblica amministrazione. Peccato che nella bozza finale del Decreto il meccanismo sia stato depotenziato (da 50 a 30 euro per ciascun giorno di ritardo fino a un tetto massimo di 2.000 euro) e legato a una procedura quanto mai barocca, e il periodo di sperimentazione sia stato esteso da 12 a 18 mesi in un Paese che sta morendo di asfissia burocratica e necessita di applicazioni urgenti più che di rinvii.
Il ritiro di Mediobanca dai salotti finanziari, invece, non solo chiude davvero un’era del capitalismo italiano ma, rilanciando il principio di una maggiore contendibilità degli assetti proprietari di alcune delle principali public company del nostro Paese, potrebbe trovare presto altri emulatori. Ne è forse un preludio la dichiarazione negli stessi giorni dell’AD di Generali, Mario Greco, che ha garantito che le partecipazioni della compagnia di assicurazioni triestina in altre società saranno improntate esclusivamente al criterio della redditività e concentrate sul core business. Sembrano due concetti ovvi a qualsiasi latitudine ma in Italia sono stati sostituiti troppe volte da valutazioni extra-economiche, che hanno finito per inquinare il mercato.
Naturalmente, l’annuncio di Mediobanca riguarda la sfera della finanza (dunque, una decisione basata sulla convenienza economica della singola impresa) e non quella della politica (il perseguimento del benessere collettivo) e come tale deve essere letto, al di là di ogni romanticismo. Tuttavia, ci sembra uno di quei casi in cui l’interesse aziendale sembra collimare perfettamente con quello generale, vendicando il concetto smithiano di mano invisibile. Purché poi se ne sappiano trarre, politica in primis, le necessarie conseguenze (ad esempio, minori barriere protettive alla scalata di importanti società italiane da parte di soggetti esteri). E in ogni caso dimostra come in un periodo di crisi come questo, occorra perseguire il cambiamento con coraggio e determinazione, percorrendo strade diverse dal passato. Per non ripeterne gli errori che ci hanno infilato nel cul de sac di una crisi senza fine. Chissà se le istituzioni che ci governano sapranno cogliere tutte le lezioni della svolta di Mediobanca. Ne dubitiamo ma speriamo, una volta tanto, di essere sorpresi anche dalla politica.