Web tax: può uno scoglio arginare il mare?

Dopo le aspre polemiche e gli accesi dibattiti parlamentari che hanno acceso la fine del 2013 è slittata al 1° luglio 2014 l’entrata in vigore della tanto discussa “web tax”, altrimenti detta, alla luce delle modifiche introdotte in sede di emendamenti, “spot tax”. Questa è la decisione contenuta nel decreto Milleproroghe il quale posticipa di qualche mese l’applicazione della nuova normativa che prescrive l’obbligo di acquistare spazi pubblicitari online e link sponsorizzati visualizzabili sul territorio italiano solo da soggetti con partita IVA italiana. La ratio sottesa a tale disciplina è fin troppo evidente: cercare di intercettare fiscalmente gli introiti dei giganti del web.

Non c’è dubbio che in un mercato sempre più concentrato e spostato sul digitale la tassazione delle web companies sia destinata ad assumere una centralità straordinaria. È noto che la competizione fiscale esistente tra i diversi Paesi incentiva le imprese a collocarsi nei luoghi in cui vigono regimi fiscali più favorevoli per poi esportare i propri beni e/o servizi negli altri e che tale tendenza trova la massima espressione in quei settori, quale quello dell’informazione, in cui i costi di trasporto sono pressoché inesistenti. La circostanza che i colossi del web paghino imposte irrisorie nei Paesi in cui offrono i propri beni e/o servizi rappresenta, dunque, motivo di riflessione per tutti i Paesi europei e non solo.

In tale contesto l’iniziativa presa dalle nostre Istituzioni, seppur condivisibile nelle motivazioni e negli intenti, desta non poche perplessità dal punto di vista tecnico, giuridico ed economico. Innanzitutto la previsione che siano visualizzabili sul nostro territorio soltanto spazi pubblicitari e link sponsorizzati acquistati attraverso soggetti titolari di partita IVA italiana, presuppone un sistema di filtraggio della rete che ad oggi non è stato implementato in nessuno dei Paesi democratici occidentali e che risulta contrario alla natura stessa della rete di internet. Dal punto di vista economico, non può sfuggire come per un Paese fortemente in ritardo come l’Italia nel raggiungimento degli obiettivi posti dall’Agenda Digitale, l’inasprimento fiscale, che pure sembra necessario nel periodo di crisi economica che stiamo attraversando, rischi di privilegiare gli altri mercati per la vendita della pubblicità online rallentando il tasso di crescita del nostro. Infine, dal punto di vista giuridico, appare quanto meno dubbia la conformità di tale disciplina alla normativa comunitaria in materia di libertà di circolazione di beni e servizi e di non discriminazione, esponendo l’Italia al rischio di essere sottoposta ad una procedura di infrazione.

La scelta compiuta dalle nostre Istituzioni appare quindi il frutto di una riflessione non ancora matura e di considerazioni dettate dalle contingenze del momento che rischiano di isolare l’Italia, minarne la reputazione internazionale e rallentarne lo sviluppo digitale. È fin troppo chiaro che la tassazione dell’economia digitale è una questione che non può essere risolta con singole iniziative nazionali e che è improcrastinabile l’avvio di un dialogo a livello europeo di cui è auspicabile che l’Italia, cui spetterà la presidenza UE nel secondo semestre 2014, diventi sostenitrice e promotrice.

 

 

Vicepresidente dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Tor Vergata nel 2006 ha partecipato, nel 2009, al master di II Livello in “Antitrust e Regolazione dei Mercati” presso la facoltà di Economia della medesima università conseguendo il relativo titolo nel 2010, anno in cui ha conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

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