I risultati del Rapporto I-Com 2014 sull’Innovazione energetica ripetono, con metodologia e numeri originali, un refrain tristemente noto: l’Italia ha discrete potenzialità, testimoniate dal numero elevato di pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali e dal buon tasso di successo nei bandi di ricerca europei, ma non riesce a metterle a frutto mano a mano che dalla ricerca di base si passa allo sviluppo commerciale di idee innovative. Pesano molti fattori, tra i quali soprattutto la piccola dimensione delle aziende accompagnata da eccessi di individualismo che ostacolano accordi inter-aziendali o tra aziende e centri di ricerca, ma certamente recita un ruolo di primo piano la scarsa incisività dell’intervento pubblico. Che, pure tralasciando il tema delle risorse investite sempre più scarse, riesce nel miracolo di coniugare una velocità decisionale degna di un bradipo con la pressoché totale assenza di una visione di lungo periodo. La lentezza e l’incertezza del processo che porta dall’apertura di un bando all’aggiudicazione e poi alla liquidazione dei finanziamenti stanziati è la prima causa di doglianza delle imprese intervistate da I-Com, nella survey condotta in collaborazione con RSE e i cui risultati preliminari sono contenuti nel Rapporto 2014. Molto più della complessità dell’iter burocratico. Si spiega soprattutto in questo modo la popolarità dei bandi europei, che presentano barriere più elevate (linguistiche e nella ricerca di partner esteri) e che non sono certo un modello di snellezza amministrativa ma assicurano quello che né lo Stato né le Regioni possono oggi offrire: la certezza delle procedure e delle tempistiche.
Peraltro, se certezza e velocità sono prerequisiti importanti in tutte le attività in cui le istituzioni si interfacciano con le imprese (e, aggiungiamo noi, con i cittadini), diventano fattori ancora più essenziali per campi come l’innovazione dove un ritardo di 1 o 2 anni può determinare il successo o il fallimento di una nuova tecnologia. In questi casi, se non si ha certezza sulla tempistica attesa, sarebbe forse meglio non assegnare proprio le risorse a quella voce di spesa perché il rischio di premiare un’innovazione il cui destino è già stato scritto, in maniera del tutto indipendente dal finanziamento che si appresta a ricevere, è troppo forte. Ma si sa che, a voler pensare bene, la politica ha bisogno di dimostrare che qualcosa si sta pur facendo, almeno nominalmente, e, a voler pensare in maniera un po’ più maliziosa, dare soldi a qualcuno rende maggiori benemerenze che non attribuirli e destinarli magari a minor deficit o a minori tasse.
Paradossalmente, percorsi amministrativi del tutto imprevedibili e tendenzialmente lunghissimi sono principalmente il frutto di una mancanza di una visione di lungo termine. Infatti, la storia dei bandi più ambiziosi (si pensi ad esempio a quelli di Industria 2015 o a quelli più recenti sulle smart city e sui cluster) si lega spesso e volentieri allo sforzo per larghi tratti lodevole di singoli Ministri e dei loro principali collaboratori, destinato però a scontrarsi con cicli di vita degli esecutivi inevitabilmente più brevi rispetto a quelli dei bandi stessi. Dunque, a parte tutti i soliti ostacoli che l’amministrazione pubblica propina a iosa verso nuovi progetti, i cambi di Governo non danno la necessaria continuità alla strategia precedente e a volte determinano brusche variazioni di rotta anche sui bandi ancora aperti o in fase di valutazione o, quel che è peggio, finiscono per rallentare l’esecutività dei pagamenti, visto che è diventato improvvisamente meno prioritario finanziare chi è stato scelto da chi governava in precedenza.
Ma, d’altronde, solo rimanendo su temi energetici, la politica ci sta offrendo diversi e per certi versi sconcertanti esempi della prevalenza di logiche di breve termine, del tutto scevre da riflessioni di ampio respiro, necessariamente basate su numeri e fatti. Tanto più gravi e deludenti in quanto provengono da chi dovrebbe rappresentare un nuovo approccio di rottura con il passato. E’ forse da qui che dovremmo partire per innescare un cambiamento culturale senza il quale l’innovazione, anche in campo energetico, sarà destinata a rimanere una Cenerentola maltrattata dalle sorelle più forti e potenti.
Il Ministero per lo Sviluppo Economico è impegnato da mesi alla ricerca affannosa delle voci da tagliare per ridurre le bollette elettriche alle PMI del 10%. Intendiamoci, le imprese italiane (almeno quelle non classificabili come energivore) pagano l’elettricità almeno il 30% in più della media europea. Dunque, occorre sforzarsi in ogni modo per cambiare la situazione. Ma, in un Paese serio, prima si stima quello che è effettivamente tagliabile nel breve, medio e lungo periodo e poi si enuncia un obiettivo con tanto di date di attuazione, non il viceversa. Altrimenti, sulle ali della demagogia si rischia di rimettere in pista ipotesi scriteriate, come il ritorno allo sciagurato bond che sarebbe ripagato dai consumatori futuri di energia (a proposito di visione di lungo termine!), oppure altamente rischiose (dal punto di vista del contenzioso e non solo) come l’allungamento forzoso e senza interessi dell’attuale periodo di incentivazione ventennale degli impianti fotovoltaici. Senza contare che, come ha fatto notare Gionata Picchio la scorsa settimana sul Fatto Quotidiano, con una mano il Governo tenta di ridurre la bolletta elettrica, dall’altra rischia di incrementare quella del gas, attraverso meccanismi di remunerazione garantita di infrastrutture giudicate “strategiche”, difficilmente giustificabili in una fase di bassa domanda destinata a perdurare nei prossimi anni e con progetti in corso totalmente autofinanziati come il gasdotto TAP.
Ma questa visione schizofrenica e di corto cabotaggio trova il suo trionfo a livello locale, con il cambiamento dei vertici di Acea promosso con infaticabile tenacia dal Sindaco di Roma. Senza entrare nel merito della questione, una delle principali ragioni addotte da Ignazio Marino per quella che è diventata una delle principali battaglie distintive della sua Giunta è la possibilità di ridurre in maniera significativa il livello dei compensi pagati all’attuale CdA. In particolare, la proposta del Comune di Roma, che sarà discussa nell’assemblea convocata il prossimo 5 giugno, è di ridurre posti nel board (da 9 a 7) ed emolumenti a tal punto da rendere la somma dei compensi del nuovo consiglio (di poco) inferiore a quanto guadagna oggi complessivamente il solo amministratore delegato. Messaggio che tocca certamente corde popolari, specie in tempi di austerity, ma basato su quali elementi, oltre alla pensata giusta o sbagliata di un sindaco? E’ stata realizzata, ad esempio, un’analisi di benchmarking sugli stipendi di utility italiane ed estere comparabili ad Acea? Tra l’altro, visto che la revoca dell’incarico non avviene alla scadenza del mandato (e tra l’altro in presenza di un andamento economico e di Borsa molto brillante e superiore alla media di mercato), è più realistico il rischio di dover sborsare cifre che si rivelino alla fine della fiera un multiplo elevato dei risparmi annunciati, a causa del più che probabile contenzioso che ne seguirebbe e della liquidazione degli attuali vertici.
Ci eravamo illusi che la Strategia Energetica Nazionale, al di là della sua valenza giuridica, potesse contribuire a quel salto culturale che tra le altre positive conseguenze potrebbe finalmente riconoscere nell’innovazione energetica un tassello fondamentale della competitività. Ci eravamo probabilmente sbagliati e la più che scarsa attenzione che in questo Governo sembrano al momento ricevere questi temi, dai piani alti del MiSE a quelli del MIUR, sembrano testimoniarlo più di ogni altra cosa. La principale nota di speranza in questo momento sembra semmai venire dai nuovi vertici delle grandi imprese energetiche del Paese. Sempre che la logica di lungo periodo prevalga su quella di breve. E sappia guardare oltre i tre anni di mandato.