Upstream Italia, dallo sviluppo conflittuale allo sviluppo pervasivo?

La scorsa settimana, il Governo ha riportato due importanti vittorie sul terreno del rilancio del settore degli idrocarburi made in Italy. La conversione in legge del Decreto Sblocca Italia e il protocollo d’intesa per il polo produttivo Eni di Gela consentono di guardare con maggiore ottimismo alla valorizzazione di risorse nazionali che il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla strategia energetica nazionale, licenziato lo scorso 21 ottobre dalla Commissione Attività produttive della Camera, ritiene “indispensabili”. Secondo le stime di Assomineraria, se venissero eliminati i colli di bottiglia burocratici (rispettando i più rigorosi parametri ambientali e di sicurezza vigenti a livello UE), si potrebbero liberare investimenti privati fino a 17 miliardi di euro nel giro di 4-5 anni, consentendo un raddoppio degli introiti fiscali di varia natura (dagli attuali 1,6 miliardi di euro all’anno a oltre 3) e una riduzione della bolletta energetica pagata ogni anno dal sistema Italia di circa 5 miliardi.

Tuttavia, come è emerso chiaramente in un incontro tra addetti ai lavori organizzato il 6 novembre da Start Magazine, portale online dedicato all’innovazione e alla crescita, i passi in avanti compiuti la scorsa settimana potrebbero non bastare. Anche perché nel ginepraio istituzionale al quale ha contribuito non poco la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, è probabile che la legge sia impugnata di fronte alla Corte Costituzionale con chance di successo tutt’altro che remote. Nonostante l’art. 38, recante “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”, disegni una governance bilanciata, con ampie possibilità di partecipazione ed evidenti benefici per Regioni e autonomie locali.

Al di là dell’aspetto squisitamente giuridico, le variopinte proteste nell’Aula del Senato in corrispondenza del voto decisivo per l’approvazione finale del Decreto Sblocca Italia, legate proprio all’art.38, impongono una riflessione sul modello di sviluppo italiano al quale guarda una parte non certo marginale della popolazione italiana ben rappresentata all’interno delle istituzioni. Un immaginario collettivo distorto che pesa come un macigno sulle speranze di crescita della nostra economia.

In Italia vige infatti tra molti la presunzione di uno sviluppo “conflittuale” o “alternativo”, secondo il quale, se cresce il settore x, inevitabilmente questo andrà a discapito del settore y. Se anche questo spillover negativo non è provato, vale il più delle volte un principio di precauzione per il quale non si può rischiare di mettere a repentaglio il settore y, che incarna le magnifiche e progressive sorti, qualunque sia la rilevanza economica del settore x, condannato dalla storia a un declino inevitabile e dunque da sottoporre il prima possibile a un’eutanasia industriale. In questi casi, meglio sopprimere subito per dedicare i sopravvissuti al perseguimento del Bene con la b maiuscola che consentire una morte lenta.

Tanto per dare concretezza al discorso, se è ovvio che il settore x possa essere identificato in questo caso con l’industria estrattiva, il settore y per antonomasia è il turismo. Quante volte ci siamo sentiti brandire la vocazione turistica di un certo territorio (basata su intenzioni più che su previsioni fattuali) come scusa per un esercizio indiscriminato del potere di veto verso qualsiasi attività economica non strettamente correlata?

In positivo, a smentita di questo modo di pensare, potremmo ricordare le quasi 100 aree di balneazione e le 9 bandiere blu della Riviera romagnola, a fronte di numerosi impianti esistenti per le attività di esplorazione e produzione di idrocarburi.

In negativo, si può ricordare come nelle Regioni meridionali, dove si concentra gran parte della protesta anti-trivelle, come dimostra una recente ricerca del RIE, il numero dei pernottamenti nel 2013 si è fermato al 12,6% del totale nazionale (dati Osservatorio nazionale del turismo). Il coefficiente di turisticità (dato dal rapporto tra presenze turistiche annuali e popolazione), che in Italia è pari a circa 6 e supera 40 nel Trentino Alto Adige e 12 in Veneto, nel Mezzogiorno non va mai oltre 4. E certo la colpa non è delle tanto vituperate trivelle, capro espiatorio facile perché estraneo, ma spesso e volentieri di fattori che pesano come un macigno sulla cattiva coscienza delle stesse comunità che protestano contro i famigerati pozzi (ad esempio, il tasso di abusivismo edilizio che ha deturpato il territorio ben più degli impianti per l’estrazione di idrocarburi).

A fronte di una situazione economica nella quale il PIL del Mezzogiorno è diminuito dall’inizio della crisi di oltre il 15%, siamo davvero convinti che si possa fare a meno delle riserve di idrocarburi? Non è forse più logico, sulla base della disastrosa esperienza di un’Italia tenuta sotto scacco dalla sindrome Nimby, accogliere un’idea di sviluppo “pervasivo” anziché “conflittuale”? Basato sull’ipotesi in verità ben piantata per terra che una comunità più ricca, in presenza di un impatto ambientale sotto controllo e limitato ad alcune aree, possa innescare la crescita anche in altri settori economici?

E’ quello che è successo nel Texas, dove tra il 2001 e il 2010 il PIL è cresciuto del 23,5% contro il 16,8% della media USA (e nel 2013, la crescita è stata del 3,7% contro l’1,8% della media nazionale). A crescere sono stati tutti i settori ma indubbiamente lo sviluppo dell’industria del petrolio e del gas, guidata del boom dello shale, ha inciso non poco. In Italia storia, geologia e diritto ci distanziano dal modello USA e dunque quello che è avvenuto Oltreoceano non è certo esportabile sic et simpliciter sul suolo italico ma la lezione americana da cogliere, in primis da chi ci governa, è quella di fare i conti con la realtà e il buon senso. Ad esempio, chi mette contro il turismo e altri settori dell’economia si è mai reso conto che un’economia prospera significa anche una maggiore domanda ricettiva, che al contrario di quella turistica non soffre di stagionalità? Esempio pratico di come turismo e affari possano essere alleati per lo sviluppo. In un Paese normale, non necessariamente al di là dell’Atlantico o delle Alpi.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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