La recente vicenda “Sonyleaks”, che ha indotto Sony a cancellare l’uscita del film Interview (qui si può vedere il trailer) a seguito delle proteste di Pyongyang e dopo aver subito gravi attacchi informatici fa sorgere diverse considerazioni. Vi è chi fa notare che fino ad ora nessuna Major si era arresa davanti a un despota, anche se in realtà i precedenti non mancano, seppur non spinti a livelli così estremi da bloccare una produzione già costata oltre 60 milioni, inclusi 20 di promozione. Il caso più illustre è forse quello de Il grande dittatore, che nel 1939 il primo ministro britannico Chamberlain cercò di fermare nel tentativo di salvare la pace in Europa. La guerra scoppiò, il film uscì nel Regno Unito e fu un gran successo. Si sono dati casi di pellicole la cui distribuzione in determinati mercati è stata bloccata per ragioni, diciamo così, di opportunità. Un esempio recente è Noah, il film sulla storia di Noé che è stato proibito in alcuni paesi musulmani, i cui governi lo ritenevano in contraddizione con alcuni insegnamenti dell’Islam. Più subdoli sono i casi in cui i contenuti di una storia vengano annacquati per timore delle reazioni dei cosiddetti poteri forti. Emblematico l’esempio de La Bussola d’Oro. La trama del film del 2007 già conteneva modifiche rispetto al romanzo da cui era tratto, ammorbidendo alcune tematiche centrali per quest’ultimo, in nome di esigenze di marketing e del politically correct. Tuttavia, dopo l’uscita nelle sale, fu attaccato così duramente da alcune associazioni cattoliche per via delle idee presuntamente eversive da indurre la casa di produzione a rinunciare ai già previsti sequel. Che dire ancora del capolavoro di Spielberg Shindler’s List la cui duffusione in Iran fu vietata perché accreditava la Shoah e lo sterminio degli ebrei e della esilarante parodia Borat che indusse il governo kazako a muovere passi ufficiali di protesta presso l’Onu. E si potrebbe andare avanti. Come si vede The interview non è il primo caso in cui il realismo economico prevale sulla libertà di espressione.
Ma è poi davvero così? Davvero un film può generare tensioni geopolitiche così gravi tra due paesi? In una fase storica come quella attuale in cui si sta per chiudere perlatro un grande capitolo della guerra fredda (Cuba) ? Nel caso di Sony si è parlato addirittura di terrorismo sotto forma di sofisticato attacco informatico, anche se l’Fbi è ancora molto cauto nell’attribuire la paternità delle minacce informatiche. Di fatto the Interview non è il primo film a ritrarre la Corea del Nord come il Male. Ricordiamo 007 Die another day, Salt, Red daw (il remake del 2012), Attacco al potere, Team America: World Police, Behind Enemy Lines II, ma nessuno di questi aveva sollevato tale scalpore o indignazione. Forse perché nel caso del film interpretato – tra gli altri – da James Franco il giovane dittatore nordcoreano viene ridicolazzato al punto tale da fargli esolodere la testa come un cocomero. In passato quindi il regime Nord coreano si era dimostrato ben più spiritoso e autoironico.
Cinicamente, qualcuno sospetta possa trattarsi di una gigantesca mossa di marketing per generare interesse intorno a una pellicola che, ha detta di chi lo ha visto, non è esattamente un capolavoro, anzi. Si tratterebbe di un caso studio perfetto da insegnare nei corsi di marketing e distribuzione cinematografica. Paradossalmente, Sonyleaks è già di per sé un soggetto molto appetibile per un prossimo film. Sony potrebbe recuperare i soldi che sta perdendo ora a causa del blocco della commedia (in realtà in questi giorni il titolo del gruppo giapponese ha preso il volo in borsa) con un nuovo film incentrato proprio su questa faccenda che sta riempendo le prime pagine di tutti i giornali. Facendo dunque tesoro della immensa pubblicità di questi giorni.
Un altro aspetto da non trascurare è che questa vicenda ha messo in luce quanto siano vulnerabili le aziende presenti online. La digitalizzazione dei contenuti e la loro archiviazione online, la moltiplicazione delle possibilità di accesso remoto a una intranet hanno reso le aziende molto più fragili. Nel caso di Sony sono state rese pubbliche informazioni private dei dipendenti, tra cui numeri di telefono e di carta di credito, password, buste paga, fatture mediche. Ma anche documenti sensibili legati a soggetti in fase di sviluppo, alle riprese dei suoi film e alla loro distribuzione e relativo sfruttamento commerciale. Tutti documenti che hanno un valore inestimabile per la concorrenza e sono una miniera d’oro per i mezzi d’informazione, che possono entrare così dietro le quinte dell’industria cinematografica. Gli hacker che hanno attaccato Sony hanno diffuso le copie pirata di quattro pellicole inedite, tra cui Annie. Un film la cui uscita nei cinema è prevista per le vacanze di Natale, ma il film è già stato scaricato decine di migliaia di volte. Del resto i pirati hanno dichiarato in diverse occasioni che le loro motivazioni sono finanziarie. In un’email inviata ai dirigenti della Sony alcuni giorni prima dell’attacco, gli hacker avvertivano: “Vogliamo una ricompensa. Pagate o sarà colpita l’intera Sony Pictures”. Ma si ha l’impressione che la fragilità evidenziata da Sony vada ben al di là dell’industria cinematografica. Sony non ha cancellato il film perché aveva paura. Lo ha fatto perché molti esercenti cinematografici hanno deciso di non proiettarlo. Qualunque sia la verità dietro Sonyleaks, l’industria cinematografica in questo caso ha dovuto issare bandiera bianca mentre gli attacchi informatici svelavano comportamenti aziendali alquanto imbarazzanti.
Ci proclamiamo e in effetti lo siamo difensori della libertà ovunque essa continui a esistere nel mondo ma non possiamo difenderla altrove se a casa nostra la calpestiamo
(Edward R. Murrow, Good night and good luck)