Il timore del cambiamento climatico e delle sue possibili e devastanti conseguenze ha imposto al mondo intero di fissare e, auspicabilmente, rispettare una soglia critica entro cui contenere le temperature terrestri. La soglia è fissata a 2oC al di sopra dei livelli pre-industriali, da raggiungere entro il 2050 e, se si vorrà davvero stare entro questo limite, bisognerà rinunciare ad una considerevole parte delle riserve di combustibili fossili. Ma quanto grande è, esattamente, questa parte e, soprattutto, come sono distribuite geograficamente le riserve destinate a rimanere sotto terra? A queste due domande provano a dare una risposta Christophe McGlade e Paul Ekins, in una ricerca pubblicata lo scorso 7 gennaio su Nature.
Innanzitutto, è stato calcolato che la soglia fissata imporrebbe di limitare le emissioni di CO2 ad un massimo di 1.100 miliardi di tonnellate, che significherebbe continuare a sfruttare solo un terzo delle riserve attualmente esistenti, in particolare due terzi delle riserve petrolifere, metà delle riserve di gas e solo il 20% di quelle di carbone.
Ma l’aspetto più allarmante è come queste rinunce dovrebbero distribuirsi geograficamente, se si intende massimizzare l’uso di questi combustibili. Considerando allora non solo le emissioni di CO2 per unità di energia, ma anche il costo di estrazione di ciascun combustibile, che tiene conto della difficoltà di estrazione e raffinazione, dell’eventuale sviluppo della risorsa e della lontananza dai siti di produzione – tutti fattori, questi, che contribuiscono ad aumentare le emissioni associate alla singola risorsa – i due ricercatori hanno disegnato un quadro geopolitico della situazione. Ne risulta che, ad esempio, il Medio Oriente dovrebbe rinunciare al 38% delle riserve di petrolio (contribuendo, da solo, alla metà delle riserve mondiali inutilizzate, data la dimensione dei giacimenti presenti nel territorio), al 61% delle riserve di gas e addirittura al 99% di quelle di carbone. Il più basso grado di utilizzo delle proprie riserve petrolifere riguarda il Canada, che potrà continuare a sfruttarne solo il 25%, cui fa da contraltare invece il 91% degli Stati Uniti, che quindi, beneficiando della vicinanza delle riserve ai siti di produzione e distribuzione, risultano essere l’unico Paese che potrebbe continuare a sfruttare quasi completamente le proprie riserve. Per quanto riguarda il gas, la Russia, la cui economia fa leva proprio sulla produzione di gas, si ritroverebbe a poterne utilizzare solo il 41%; anche in questo caso, gli unici a poter continuare a sfruttare la quasi totalità delle proprie riserve (94%) sarebbero gli Stati Uniti. E non cambia molto neppure se si prende in considerazione l’ipotesi di un’ampia diffusione, a partire dal 2025, delle tecnologie di carbon capture and storage (CCS). Queste dovrebbero, infatti, rendere più efficiente lo sfruttamento delle riserve fossili, tuttavia, dato il loro costo, l’anno di introduzione e il tasso massimo di installazione di simili tecnologie, il loro contributo sui livelli complessivi di utilizzo delle riserve esistenti rimane molto modesto.
I risultati della ricerca lasciano spazio a due riflessioni. Intanto, la dimensione delle riserve esistenti e del loro grado di inutilizzabilità rende, da sola, l’idea di quanto inconsistente ed economicamente insostenibile sia perseverare nell’esplorazione di nuove risorse fossili. Si parla, per il solo 2013, di 670 miliardi spesi dalle compagnie energetiche per la ricerca e lo sviluppo di nuove risorse: sono, questi, investimenti ormai sempre più a rischio e che sarebbe probabilmente più sensato dirottare verso fonti alternative e a più basse emissioni di CO2, quali le rinnovabili. Secondariamente, dato lo scenario geo-politico che ne emerge – verrebbe da dire, a prima vista, difficilmente sostenibile – sarà probabilmente utile, o forse necessario se si vuole davvero tentare di raggiungere l’obiettivo climatico, prevedere dei meccanismi di compensazione che “ripaghino” in qualche modo quei Paesi chiamati ai maggiori sacrifici in termini di rinunce.