«…Tutti di pelle verde… accadeva ottocento secoli fa… i loro fluidi corporei includono la nascita di mezzo sangue… perciò la realtà fondamentale è l’autodeterminazione del cosmo… perché scura è la pelle scamosciata… e i mucchi di fieno del buon raccolto…».
Questa era la traduzione in inglese del discorso di un marziano fornita dal folle apparecchio inventato dallo scienziato strampalato di “Mars Attack!”, capolavoro pop burtoniano del ’96 che vantava un cast “stellare” composto, tra gli altri, da Jack Nicholson, Glenn Close, Tom Jones, Pierce Brosnan, Michael J. Fox, Danny DeVito ed un giovanissimo Jack Black. Al Generale Decker (Rod Steiger) suonò come un “nonsense” cosmico e chiese, anche a nome di tutti gli spettatori, «… che diavolo significa!?».
E’ proprio questo che pensiamo anche noi, “che diavolo significa!?”, quando apprendiamo che una nota società di produzione televisiva ha intenzione di inviare ventiquattro persone (12 uomini e 12 donne) su Marte per poi parcheggiarle lì in maniera definitiva, non potendo contare su tecnologie che possano riportarli a casa sani e salvi. Il problema del rientro quasi non si pone dal momento che Veronica Bray (University of Arizona) ci informa che riportarli indietro potrebbe essere del tutto inutile visto che l’atmosfera eccessivamente rarefatta del pianeta lascia penetrare radiazioni che potrebbero far insorgere tumori e deficit del sistema immunitario addirittura prima di essere sbarcati sul suolo marziano, figuriamoci dopo una permanenza lunga e faticosa.
Insomma, qualora il network riuscisse nei suoi propositi (resi pubblici già da qualche anno) assisteremo ad un suicidio in diretta ? Alcuni hanno già titolato “Il Grande Fratello va su Marte!”. Il format, infatti, dovrebbe essere curato da Paul Romer (l’inventore del “GF”) in base ad un accordo tra “Mars One”, la fondazione no-profit che si occuperà del reperimento dei fondi e della messa in opera del progetto, e la Darlow Smithson Productions (controllata Endemol; sempre quella del “Big Brother”, per intenderci!).
Il lancio della navicella è previsto per il 2024, anno in cui la costruzione della base marziana ad opera dei robot che salperanno l’anno prossimo dalla terra dovrebbe essere completata da un pezzo. Questi lunghi anni di attesa serviranno a racimolare soldi per il finanziamento dell’esplorazione del pianeta rosso e per la produzione dello show; a questo punto, è impossibile scindere le due cose. I dubbi espressi da Gerard ’t Hooft (premio Nobel per la fisica nel novantanove) sulle condizioni di sicurezza dei coloni spaziali non devono aver impensierito più di tanto i promotori dell’impresa che, sorridendo sornioni, ce lo presentano così: ecco a voi “Mars One”!
Apprendiamo tra l’altro che tra i 200mila candidati del progetto figura anche un giovane italiano, ansioso di partire e fiducioso che da qui a 10 anni si troverà una qualche tecnologia per tornare sulla terra.
Quello che dovrebbe interessarci, a questo punto, non è la fattibilità del progetto in sé (sembra che Endemol abbia fatto dietrofront) quanto la capacità di elaborare un format unico ed inaudito, che prevede nei prossimi sette anni la selezione e l’addestramento dei partecipanti quale premessa “promozionale” dello show e che, impossibile negarlo, riuscirà ad inchiodare alla poltrona il mondo intero, come quella notte italiana del lontano ’69 ma certamente con minor fiducia nel genere umano.
Siamo di fronte alla nuova frontiera dell’intrattenimento, quella che coniuga le velleità scientifiche alle esigenze di business, quella che valuta il fattore di rischio per le componenti umane al ribasso e che brama di monetizzare l’impatto emotivo che la sofferenza dei partecipanti potrebbe avere su un pubblico succube e connivente.
Poco importa se la navicella spaziale salperà davvero o meno, quello che conta è che un certo tipo di show è già stato sdoganato, lo abbiamo già immaginato sul nostro teleschermo, siamo già pronti ad assistere al disastro, alla perdita volontaria o colposa di ventiquattro vite umane nel cosmo.
Non inventiamo nulla di nuovo. In fondo, dagli antichi romani, ogni generazione ha avuto i suoi ludi gladiatori, in barba a ciò che il buon gusto e l’evoluzione della specie dovrebbero implicare.
(articolo scritto con Armando Maria Trotta, pubblicato su Key4Biz)