Come ben noto a tutti, Internet ha ormai raggiunto un grado di diffusione estremo, con la conseguente enorme mole di dati da gestire, facilitata anche dalla comparsa di smartphone sempre più accessibili: gli utenti presenti in rete sono arrivati a quota 3 miliardi nel 2014, con previsioni che proiettano il numero di connessioni in banda larga su un valore di 7,6 miliardi nel 2020; tendenza simile per i dati su rete mobile, che hanno sperimentato una crescita del 69% nel 2014, a livello globale, e si stimano tassi simili da qui fino ad almeno il 2019.
Se da un lato il passaggio di molte delle nostre attività quotidiane online ha consentito notevoli guadagni in termini di efficienza energetica, ora l’eccesso nell’altro senso – ossia, lo smodato impiego di apparecchi digitali e del web – rischia di vanificare questi effetti positivi. Basti pensare, ad esempio, che oggi l’industria dell’editoria consuma molta più energia per i centri dati che per le macchine da stampa. Greenpeace, nel suo recente report “Clicking clean: A guide to building the green Internet”, stima che la domanda aggregata di elettricità necessaria nel 2011 a tener in piedi la nostra infrastruttura digitale si posizionerebbe al sesto posto nella classifica mondiale dei Paesi.
Le aspettative sul futuro sono senz’altro in tendenza positiva per quel che riguarda il fabbisogno energetico attribuibile al mondo dell’ICT. E’ da questa consapevolezza – e senz’altro anche dai prezzi sempre più competitivi dell’energia rinnovabile – che nasce la sensibilità di alcuni grossi provider e la necessità, da parte di Greenpeace, di incoraggiare comportamenti simili da parte di altri operatori del mercato.
Tra i più attenti alla sostenibilità ambientale delle proprie attività, sicuramente in testa troviamo Apple – col suo impegno al raggiungimento dell’obiettivo di impiegare il 100% di energia rinnovabile – e Yahoo; ma anche Facebook e Google mostrano un buon livello di commitment all’impiego di energia verde, descritto dal quello che nel report viene chiamato il clean energy index, e che risulta pari al 49% e 46%, rispettivamente per le due società.
Meno bene società di un certo spessore come eBay e Oracle che ancora mostrano una scarsa propensione ad utilizzare fonti rinnovabili, preferendo quelle tradizionali: in Oracle ben la metà dell’energia impiegata proviene da fonti fossili e solo per il 17% si fa affidamento su fonti pulite; situazione simile per eBay, nel cui mix energetico prevale però la quota di gas naturale e solo per il 10% si tratta di energia pulita. Anche un colosso come Amazon non si distingue per attenzione agli importanti temi dell’efficienza energetica, riduzione delle emissioni e vocazione all’impiego di energia pulita; ancor più, nel report viene denunciata la scarsa trasparenza in materia energetica: la società, infatti, non fornisce alcun dettaglio circa il proprio impatto energetico, e solo informazioni parziali riguardo ai propri acquisti di energia rinnovabile, rendendo invalutabili da parte di clienti ed investitori gli obiettivi lodevoli spesso annunciati, ma poi difficilmente verificabili.
Greenpeace, attraverso il report, auspica una maggiore presa di coscienza, invitando, da un lato, le società ancora un po’ dietro in questo processo ad “emulare” i loro concorrenti virtuosi in questo senso e sollecitando, dall’altro, un approccio più collaborativo tra i grandi operatori dell’ICT ed i competenti organi istituzionali al fine di superare le resistenze delle utility locali, spesso in regime di monopolio di Stato, che in alcuni casi creano delle barriere al libero accesso alle energie rinnovabili, di fatto impedendo la realizzazione di una rete Internet alimentata da energia pulita.