Il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi fissati dall’Agenda europea per il 2020, confermati e addirittura rafforzati nelle Strategie per la banda ultra larga e per la crescita digitale, varate dal Governo Renzi tra il 2015 e il 2016, richiede necessariamente che alla disponibilità di reti si accompagni una domanda in grado di supportare lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi digitali.
Come noto, e ampiamente descritto nel Rapporto I-Com 2017 su Reti e Servizi di nuova generazione, l’Italia sta rapidamente guadagnando il terreno perduto sul fronte dell’offerta ma continua a segnare il passo su quello della domanda. Dove, in base all’edizione 2017 dell’IBI (I-Com Broadband Index), non solo non riduce il suo distacco dal Paese best performer ma addirittura (sia pure lievemente) lo peggiora rispetto all’anno precedente.
Se in Lussemburgo e Danimarca soltanto il 2% degli individui non ha mai usato internet nel 2016, percentuale che sale di un soffio in Svezia (3%) ed in Finlandia e Regno Unito (4%), in Italia più di un quarto degli individui (il 26%) non si sono mai affacciati su Internet in un intero anno. Una percentuale diminuita di molto negli anni ma che denota uno zoccolo duro che per diverse ragioni risulta non facile da aggredire. In primo luogo per una ragione anagrafica: se nella fascia d’età più giovane sono 10 i punti che ci separano dalla Finlandia capolista tra i giovanissimi, la differenza sale a 17 punti nella fascia d’età tra i 25 ed i 34 (il Lussemburgo si attesta al 100%, l’Italia all’83%) e tra i 35 ed i 44 anni (Finlandia e Danimarca si attestano al 97%, l’Italia all’80%), a 24 punti nella fascia d’età 45-54 (Lussemburgo 92%, Italia 68%), a 34 punti nella fascia 55-64 (Lussemburgo 85%, Italia 51%) e addirittura a 57 punti percentuali nella fascia d’età più matura 65-74 (Lussemburgo 81%, Italia 24%). E data l’età media più elevata in Italia che altrove e il processo di invecchiamento della popolazione, questi dati dovrebbero rappresentare altrettanti campanelli di allarme. Se non di vera e propria preoccupazione.
Lo scarso uso di base di Internet si riflette in una penetrazione nettamente più bassa della media UE dell’e-commerce e dell’Internet banking, cioè di due servizi che hanno il pregio di rendere più efficiente sia la filiera della domanda che quella dell’offerta, finendo per determinare un vantaggio competitivo per un Sistema Paese sull’altro (oltre che per un’azienda rispetto ai suoi competitor).
Se Regno Unito, Danimarca e Lussemburgo registrano una percentuale pari all’83%, 82% e 78% di individui che fanno acquisti online, a fronte di una media europea che si attesta al 55%, l’Italia, con un modestissimo 29%, scivola all’ultimo posto nella classifica europea insieme a Cipro.
Stesso discorso lato offerta. Se nel 2016 nell’Unione Europea ben il 22% del fatturato delle grandi imprese è derivato dall’e-commerce (dato che scende rispettivamente al 12% per le medie e al 6% per le piccole), in Italia la percentuale di fatturato prodotta dall’e-commerce è stata pari al 12% per le grandi, al 10% per le medie e al 3% per le piccole imprese.
Discorso dello stesso tenore vale per l’Internet banking. Anche in questo caso la percentuale di italiani che ha utilizzato l’internet banking nel 2016 non è andata oltre il 29%, contro maggioranze bulgare raggiunte da Danimarca (88%), Finlandia (86%) e Olanda (85%) e una media europea del 49%. Peraltro, il ritardo dell’Italia rispetto alla media UE non solo non diminuisce ma anzi aumenta nel tempo (dai 13 p.p. del 2007 ai 20 del 2016, con un incremento di ulteriori due p.p. rispetto al 2015).
A questo punto, viene da chiedersi se gli investimenti significativi nelle reti veloci, che sono accelerati di molto nell’ultimo periodo e che, per quanto riguarda la banda ultra larga fissa, raggiungeranno il loro picco nei prossimi 2-3 anni, saranno da loro sufficienti a trainare la domanda o se ci sia bisogno di uno stimolo ad hoc, sotto forma di incentivi monetari (es. voucher) o di un switch off di alcuni servizi oggi offerti in modalità (anche) analogica (es. prenotazione di visite mediche, pagamento delle imposte, ecc.).
Senza negare la possibilità che l’offerta crei la sua domanda, principio enunciato da Jean-Baptiste Say quasi due secoli fa, prima di essere messo alla berlina da John Maynard Keynes negli Anni Trenta del Novecento (ma si era al tempo della Grande Crisi del ’29), occorre interrogarsi se la velocità con cui questo sta accadendo sia davvero adeguata. E sufficientemente capillare (in altre parole, sono gli stessi consumatori a domandare più servizi o si riesce ad aggredire in maniera significativa quello zoccolo duro di renitenti al digitale?).
Per questo, sembra essere venuto il momento di spingere l’acceleratore su misure di sostegno alla domanda, rigorosamente non discriminatorie e non distorsive della concorrenza. Per completare il grande sforzo che, occorre riconoscerlo, il Paese, a livello di classi dirigenti, ha fatto negli ultimi anni. D’altronde, proseguendo a parlare di economisti e delle loro teorie, il Premio Nobel di quest’anno è andato a Richard Thaler, ideatore insieme al giurista Cass Sunstein del nudging (in italiano “spinta gentile”). Sulla gentilezza della spinta ci si può interrogare ma che ce ne sia bisogno appare indubbio. Con buona pace di Say.