Si tratta della prima indagine eseguita direttamente sulle neoimprese italiane ed è di fondamentale importanza. Primo, perché consente di avere informazioni di dettaglio altrimenti difficilmente reperibili. Secondo, perché contiene un feedback importante per il governo, che per la prima volta in maniera più compiuta è in grado di capire il reale apprezzamento di queste realtà per i provvedimenti che negli ultimi anni si sono susseguiti, nonché, quelli che sarebbe opportuno intraprendere per consentire, ora, a queste giovani realtà imprenditoriali di fare il salto. E, terzo, perché aiuta anche a sfatare qualche mito, il che può rivelarsi utile a livello informativo e per coloro che meditano di intraprendere un’avventura simile.
L’evento di presentazione del rapporto si è svolto presso la sede dell’Istat, con la partecipazione del presidente Giorgio Alleva, del Direttore generale per la politica industriale del Mise Stefano Firpo, del Direttore del dipartimento per la produzione statistica di Istat Roberto Monducci, e di rappresentanti del mondo dell’impresa, dell’università e di organizzazioni internazionali (Commissione europea, Ocse, Unido).
La rilevazione è stata di tipo censuario, cioè rivolta a tutte le start-up esistenti a chiusura del 2015, per un totale di 5.150 imprese. Il campione di imprese che ha aderito all’indagine conta 2.250 imprese, circa il 44% della popolazione totale.
Quattro sono i temi centrali su cui il lavoro si è concentrato: capitale umano, accesso alla finanza, vocazione all’innovazione e utilizzo degli strumenti di policy che il Governo ha messo a disposizione sinora.
E proprio rispetto al primo, emergono diversi dati interessanti. Innanzitutto, il titolo di studio conta: ben il 72% dei soci fondatori di start-up possiede una laurea (in prevalenza in materie tecnico-ingegneristiche ed economico-manageriali), il 16% addirittura un dottorato di ricerca. Stiamo parlando, dunque, di realtà d’impresa che si distinguono, all’interno del panorama imprenditoriale nostrano, per un livello molto elevato di skills e competenze. Un altro aspetto interessante che emerge è l’importanza che il fattore territoriale riveste per molte startup: in oltre 4 casi su 5 la sede della startup coincide con la regione in cui i fondatori si sono formati e hanno avuto esperienze lavorative. Un simile radicamento territoriale è da leggersi come una conferma del ruolo fondamentale che gli istituti accademici nonché il contesto imprenditoriale già esistente sul territorio giocano, in particolare per queste neoimprese innovative, attraverso gli spillover che essi generano. Mentre una sorpresa è scoprire come l’ecosistema delle startup metta in discussione uno degli stereotipi squisitamente italiani. E, cioè, che “fare l’imprenditore sia solo per figli di imprenditori”: solo un socio su 5, infatti, dichiara di avere un padre imprenditore, il che porta ad attribuire alla startup anche un ruolo di “mobilitatore sociale”.
Passando al tema dell’accesso alla finanza – un tema sempre molto discusso quando si parla di neoimprese e, ancor più, di innovazione – il tratto certamente più interessante che i dati della survey portano alla luce è il diffuso livello di soddisfazione generale degli startupper. Si fa da sempre un gran discutere sul sottodimensionamento del mercato del capitale di rischio nel nostro Paese. Questi risultati portano a pensare che la questione sia tutto sommato piuttosto sopravvalutata rispetto a quanto non sia in realtà sentita tra i diretti interessati: si consideri infatti che circa un quarto delle start-up esaminate ritiene che la miglior forma di finanziamento sia rappresentata dal capitale proprio, mentre più della metà (65,7%) ritiene che il finanziamento ottimale sia rappresentato da un giusto mix tra equity e capitale di debito. Sebbene tali risultati sfatino parzialmente un altro mito, resta, tuttavia, importante ed auspicabile, soprattutto per alcune di queste realtà, un maggior sviluppo del mercato del venture capital e business angel, decisamente poco sviluppato e strutturato nel nostro Paese e che, spesso, porta alcune di queste realtà di successo a spostarsi all’estero nel momento in cui si rende necessaria una “maturazione“ dell’attività d’impresa.
La ragione prevalente che gli startupper indicano come principale motivazione a creare la startup è la realizzazione di prodotti o servizi innovativi. E, in effetti, i risultati che nel rapporto vengono presentati nella terza sezione (relativa appunto al tema dell’innovazione) mostrano come quasi l’80% delle startup effettui spese in R&S, che complessivamente ammontano a quasi la metà dei costi totali annui sostenuti. Tre imprese su quattro hanno realizzato innovazioni di prodotto o servizio, che nella maggior parte dei casi rappresentano innovazioni incrementali, tuttavia quasi la metà delle startup dichiara di aver introdotto prodotti radicalmente nuovi. Quello che manca è la tendenza a proteggere tali innovazioni. C’è infatti troppo poca proprietà intellettuale: ben il 58% delle imprese dichiara di non aver adottato nessun meccanismo formale di tutela della proprietà intellettuale – un dato ancor più alto nel Mezzogiorno – ed il 31% addirittura non impiega nemmeno una strategia informale di protezione.
Infine, uno degli scopi con cui l’idea di questa survey nasce è sicuramente quello di indagare il sentimento di queste imprese rispetto all’intensa azione normativa avviata dal governo a partire dal 2012. Tra le misure di policy più conosciute sicuramente figurano la riduzione dei costi per l’avvio d’impresa e l’accesso semplificato e gratuito al Fondo di Garanzia per le Pmi (di cui quasi il 90% delle neoimprese è a conoscenza). Tra quelle più apprezzate troviamo, invece, il credito d’imposta per attività di R&S, gli incentivi fiscali per gli investimenti in capitale di rischio, e la maggiore flessibilità prevista per le assunzioni a tempo determinato. Scarso interesse viene rilevato con riferimento alla possibilità di avviare campagne di equity crowdfunding.
Tra le molteplici proposte che grazie all’indagine è stato possibile raccogliere da parte delle startup stesse, quelle più strutturate hanno a che fare con l’alleggerimento di adempimenti e altri oneri burocratici (27,9%) – tramite l’introduzione di esenzioni temporanee da imposte e contributi previdenziali nei primi anni di attività – l’accesso al credito bancario (21,4%) e le imposte e incentivi fiscali (24,8%), con la richiesta di attivare forme di finanziamento a fondo perduto, o comunque di limitare il ricorso a bandi c.d. “cash-negative”, ossia quelli in cui l’erogazione del finanziamento arriva sotto forma di rimborso di spese già sostenute, la cui logica dunque presume che le imprese detengano già una qualche disponibilità finanziaria per anticipare i costi d’investimento.
Insomma, restiamo in attesa dei prossimi passi che il governo deciderà di intraprendere. Intanto, però, certamente un plauso va a chi questa iniziativa l’ha voluta e portata a termine, non solo per il bagaglio conoscitivo che essa fornisce ma anche perché si tratta, come il rapporto stesso sottolinea in chiusura, di un passo importante volto a “pensare il rapporto tra legislatore e destinatario delle politiche pubbliche in una logica diversa da quella di sottoposizione passiva alle norme: un rapporto a due direzioni, aperto a nuove proposte e alla critica costruttiva, fondato su una sana e virtuosa collaborazione”.