Perché l’Eurozona ha bisogno di un piano di investimenti. La versione di Confindustria


Articolo
Maria Francesca Amodeo

Dopo la crisi economica del 2008 gli investimenti nel Vecchio Continente sono calati drasticamente e adesso per risollevare le sorti dell’Eurozona è necessario che tornino a crescere ma secondo un lavoro coordinato e condiviso da tutti gli Stati membri. È questo uno degli aspetti principali che emergono dal report “Dove va l’economia italiana e una proposta per l’Eurozona” realizzato dal centro studi di Confindustria diretto dall’economista Andrea Montanino. Come fotografa anche il seguente grafico.

Lo studio si sofferma sulla necessità di consolidare i legami – soprattutto economici – tra i Paesi che fanno parte dell’Unione e, in particolare, tra quelli dell’area euro. Il report, tra le altre cose, mira attraverso l’analisi di diversi fattori socio-economici a dimostrare quanto per l’Italia una maggiore integrazione sia auspicabile e necessaria per riuscire a generare benessere diffuso. “Soltanto un rafforzamento dell’Eurozona, e non il suo abbandono, può generare ulteriore benessere“, è scritto testualmente nel dossier.

Sin dalla sua nascita l’Ue ha avuto l’ambizione di diventare una confederazione, economica prima e politica poi. Ma a distanza di 26 anni dalla firma del trattato di Maastricht – il 7 febbraio 1992 – alcuni degli obiettivi che si sperava di raggiungere sembrano ancora lontani. La maggior parte dei cittadini continua a credere nell’integrazione economica e politica dell’Unione ma allo stesso tempo, negli ultimi anni, è vertiginosamente calata la fiducia nelle istituzioni europee, scesa al minimo storico del 40%.

La moneta unica ha rappresentato un grande passo in avanti, ma – come lo stesso report sottolinea – “le eterogeneità culturali, identitarie, linguistiche e le diverse preferenze rispetto a istituzioni e politiche” non hanno favorito la vera e propria creazione di un soggetto politico-economico unitario.

Indispensabile sarebbe, secondo lo studio, una ridefinizione delle competenze con un approccio più coerente che concentri alcuni poteri esclusivamente nelle mani dell’Europa: “Da tali considerazioni discende un elenco ragionato delle funzioni da accentrare a livello europeostabilizzazione macroeconomica, investimenti infrastrutturali, ricerca, protezione sociale, oltre che politica estera, diplomazia, aiuti umanitari e allo sviluppo, difesa, sicurezza, migrazione, controllo delle frontiere“.

Il report sottolinea come sul fronte dell’economia – quello che da sempre traina il progetto di unificazione – la Commissione europea miri a completare l’unione bancaria e dei capitali entro la fine di questa legislatura (quindi entro il 2019). Questo obiettivo però non riuscirà da solo a cambiare le cose in modo sostanziale.

Ecco perché in questi ultimi anni, si è parlato insistentemente della necessità di portare avanti un nuovo piano di investimenti per l’Eurozona. I progetti messi in atto finora dall’Unione europea (il Piano Junker e Horizon 2020), non sembrano essere riusciti a raggiungere i risultati sperati:”Occorre pensare a un meccanismo sovranazionale che, in un’ottica di lungo periodo, riesca a realizzare nei singoli paesi membri i progetti ambiziosi e innovativi che hanno difficoltà a reperire risorse finanziarie sul mercato. Il Piano europeo deve concentrarsi su investimenti in infrastrutture, ricerca e sviluppo, formazione“.

Quali sarebbero i vantaggi di una strategia economica comune a livello europeo in questo campo? Innanzitutto, “la spesa per investimenti è tipicamente residuale rispetto ad altre voci di uscita ‘obbligatorie’, e viene spesso compressa per correggere i risultati di bilancio, nelle fasi in cui si adottano politiche restrittive”, afferma il report. Da qui la considerazione che “il rispetto dei vincoli di bilancio europei rende obiettivamente difficile per i singoli paesi programmare un Piano di investimenti“.

Raccogliere gli investimenti in un progetto comune e non in tanti piccoli piani economici nazionali differenti consentirebbe inoltre a tutti gli Stati di avere parità di accesso a questa componente di spesa senza tener conto delle divergenze che riguardano le diverse condizioni economiche degli Stati.

In attesa della realizzazione di un piano comune esistono comunque alcune soluzioni temporanee “dirette a ‘proteggere’ la spesa per investimenti dal resto della spesa pubblica“. La principale è la cosiddetta golden rule, una vera a propria regola che permetterebbe di escludere gli investimenti dai vincoli del Patto di stabilità e crescita. Oppure si potrebbe chiedere ai singoli Paesi di programmare anticipatamente la spesa che si intende destinare agli investimenti e non farla rientrare nei vincoli dello stesso patto: “Una volta approvati a livello europeo si tratterebbe di certificare annualmente la spesa erogata ed escluderla dai saldi ai fini del rispetto del Patto“. O ancora, secondo il centro studi di Confindustria si potrebbero “escludere tutte le spese che si riferiscono a progetti in conto capitale cofinanziati dai fondi europei. Tale soluzione ha il vantaggio di non richiedere un’istruttoria preliminare e di favorire l’utilizzo delle risorse europee”.

Si potrebbe in ultimo anche pensare di potenziare la clausola per gli investimenti introdotta dal 2015 nel Patto di stabilità e crescita e prevederla per almeno 3 anni (ma solo per i Paesi che attuandola non sforerebbero il 3% del Pil). È stimato che con quest’ultimo metodo “nel solo 2019 sarebbe possibile espandere gli investimenti pubblici nazionali di circa 57 miliardi nell’ambito dell’Unione europea e di circa 48 miliardi nell’Eurozona”.

Classe 1991, calabrese. Ha conseguito un Master in giornalismo politico, economico e di informazione multimediale alla Business School del Sole24Ore. Impegnata in politica, ha ricoperto il ruolo di coordinatrice nazionale dei giovani CD. Collabora con diverse testate giornalistiche online occupandosi di politica e anche di musica. Da dicembre 2017 nell’Ufficio stampa di I-Com.

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