Con il voto del 5 luglio scorso il Parlamento europeo ha di fatto bloccato, almeno per il momento, i lavori relativi alla proposta di una nuova direttiva che riformerebbe radicalmente le norme sul copyright.
Tema molto caldo che ha infervorato il dibattito pubblico nelle ultime settimane un po’ in tutto il Vecchio Continente. Diverse sono state le proteste contro il provvedimento tra cui, una delle più eclatanti, l’oscuramento della pagina italiana di Wikipedia, messo in atto dagli stessi volontari del nostro Paese della più grande enciclopedia libera e online del mondo.
Più precisamente, gli europarlamentari riuniti a Strasburgo hanno rigettato la proposta di iniziare le negoziazioni per modificare la legge sul copyright nella fase del cosiddetto “trilogo”, in cui i rappresentanti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione si riuniscono per accelerare l’iter decisionale dell’Ue. I negoziati tra queste tre istituzioni avrebbero dovuto portare a un’adozione formale nella primavera del 2019, con un’implementazione da parte degli Stati membri entro la primavera del 2021.
Ma cosa potrebbe succedere in virtù del no del Parlamento europeo? La proposta sarà riesaminata nell’emiciclo intorno al 10 settembre, quando si svolgerà la prima lettura. Nel caso, nient’affatto scontato, in cui ci fosse un eventuale via libera del Parlamento, l’iniziativa tornerebbe al Consiglio, che potrebbe decidere di proporre alcuni emendamenti al testo o, meno probabilmente, di accettare il testo ricevuto. In caso contrario, invece, i tempi si allungherebbero a dismisura: alla luce dell’enorme quantità di proposte ancora in discussione – e dell’inizio del nuovo mandato del Parlamento nella primavera 2019 – è persino ipotizzabile che la proposta, così come concepita, non venga più neppure adottata.
La direttiva avrebbe l’obiettivo di armonizzare e aggiornare le leggi dei singoli Stati membri sul copyright, fornendo basi comuni più chiare. Nondimeno, il linguaggio adottato nel testo è stato oggetto di aspre critiche per via della sua vaghezza e apparente contraddittorietà rispetto ai principi europei della libera circolazione di informazioni.
In particolare sono due gli articoli della direttiva oggetto di discussione: innanzitutto l’11, che avrebbe dovuto bilanciare il rapporto tra le piattaforme online, gli editori e i creatori di contenuti. Nello specifico l’articolo prevede che in ogni stato membro venga garantita agli editori una forma di remunerazione da parte delle piattaforme digitali per mostrare alcuni contenuti. Per molti, il discorso è legato al tema delle anteprime degli articoli, che vengono mostrate dalle piattaforme digitali senza alcuna forma di compensazione economica per gli autori. La questione è particolarmente spinosa perché, se da un lato le piattaforme si difendono affermando che i loro portali rappresentano strumenti di diffusione, dall’altro gli editori ribadiscono che spesso gli utenti si affidano alle anteprime senza effettivamente consultare l’articolo nella sua interezza sulle pagine di riferimento.
L’altro articolo della direttiva particolarmente contestato è il 13, secondo cui le piattaforme online sarebbero tenute a esercitare un controllo sui contenuti caricati dagli utenti per evitare pubblicazioni di materiale coperto da copyright. Da notare che una tecnologia simile, dal nome “Content ID”, viene da tempo adoperata da YouTube. Da una parte numerose etichette musicali hanno accolto con piacere la proposta che potrebbe aiutare a limitare la diffusione della pirateria mentre dall’altra, però, molti esponenti della società civile digitale (ad esempio Vint Cerf e Tim Berners-Lee) hanno sottolineato come l’iniziativa possa ridurre sensibilmente le libertà di espressione e d’informazione.
Detto questo, oltre a discutere degli effetti della proposta nell’immediato, occorre anche riflettere brevemente su come questa direttiva, qualora andasse in porto, potrebbe influenzare la competitività nel mercato digitale europeo in futuro.
Per quanto riguarda l’articolo 11, è importante chiarire che la proposta penalizzerebbe non solo i cosiddetti giganti del web ma anche e soprattutto le piccole imprese digitali. Quest’ultime in particolare dovrebbero farsi carico di costi alquanto elevati tali che li renderebbe poco competitivi sul mercato delle piattaforme online.
Un discorso simile riguarda l’articolo 13. Basti pensare che Youtube ha impiegato 11 anni e milioni di dollari per sviluppare il “Content ID”. Come potrebbero le piccole piattaforme digitali permettersi una spesa tale? C’è il rischio che solo le società più grandi possano essere in grado di sviluppare gli algoritmi necessari a mantenere in regola le proprie attività.