L’Italia, fin dal secondo dopoguerra, è stata teatro di particolari dinamiche sociali, culturali e territoriali che si sono espresse nei risultati delle votazioni nell’arco degli anni dal 1946 ad oggi. Un fenomeno che ha caratterizzato il nostro Paese, a partire dal voto per l’Assemblea costituente, fino alle ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018, è stata la diversità degli esiti elettorali che si sono riscontrati tra capoluoghi di regione e il resto del territorio. Questa differenza, che nel caso di grandi metropoli come Roma, si riscontra anche all’interno delle diverse zone della città, ha accompagnato la storia politica del nostro Paese, prima con partiti improntati a grandi ideologie e adesso con un sistema che subisce l’instabilità degli elettori e la fluidità nelle decisioni di voto. Di tutto questo abbiamo parlato con l’analista politico ed editorialista Luca Tentoni, autore del libro dal titolo “Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione 1946-2018“, edito da Il Mulino.
Tentoni, quali sono i fattori che maggiormente determinano la differenza di voto tra capoluoghi di regione e resto del territorio?
Ci sono fattori strutturali e altri variabili che cambiano per ogni regione. Questa è una caratteristica tipica italiana: in ogni regione il capoluogo è una realtà differente dal resto del territorio, poi intervengono delle caratteristiche specifiche di alcuni partiti. Negli anni venti, durante le elezioni politiche e amministrative si è riscontrato che alcuni partiti, come ad esempio il Partito Popolare, avevano maggiore facilità a radicarsi nelle campagne e nei centri minori rispetto alle grandi città.
Non si tratta quindi di una divisione politica?
E’ un problema di cultura politica ma anche sociale ed economico. Ed è una delle tante fratture che caratterizzano il nostro scenario politico. L’Italia non è soltanto articolata, come in precedenza, fra zone rosse e zone bianche o, adesso, in zone a prevalenza di centrodestra, centrosinistra o cinquestelle, ma ha anche delle divisioni congenite economiche e territoriali. E tutto questo si può trovare all’interno delle stesse città. In una grande metropoli come Roma, ad esempio, il voto dei quartieri centrali differisce da quello dei quartieri periferici.
La differenza di voto permane negli anni, ad oggi qual è il fattore predominante?
Sono vari ma quello culturale ha sicuramente un peso importante, c’è una disomogeneità culturale. La differenza di voto risponde a specifici fattori come, ad esempio, l’istruzione. Ed è così che da problema culturale si trasforma in un fenomeno politico. C’è pluralismo all’interno delle zone del Paese ma lo si riscontra anche anche all’interno delle regioni e delle città.
Perché i cittadini tendono a votare in modo differente alle amministrative alle altre elezioni?
Questa situazione permane fino a quando tutto non sarà omogeneizzato, come accade per esempio nel web. Tanto più la propaganda è fatta a livello mediatico e non sul territorio, quanto più queste differenze tendono ad attenuarsi, senza tuttavia scomparire del tutto.
Nel caso del Movimento 5 Stelle la presenza è capillare ma virtuale. In che misura influisce la presenza sul territorio di un partito?
La presenza del Movimento 5 Stelle è sia virtuale che reale. Il Movimento esiste anche sul territorio però si confronta con partiti che sono maggiormente radicati come, ad esempio, la Lega. Che tradizionalmente è più forte al Nord (dove è nata) ma che oggi è presente in modo sempre più capillare su tutto il territorio. Durante la Prima Repubblica la presenza territoriale era molto forte, in ogni piccola cittadina c’era la sede del partito: a dimostrazione che se i partiti sono presenti sul territorio, allora hanno la possibilità di ricevere un più alto consenso elettorale.
La situazione attuale è decisamente differente. Come si dovrebbero comportare i partiti?
Adesso la politica non si fa soltanto sul territorio ma anche sui social network. Ci sono luoghi fisici e luoghi virtuali e chi punta solo sulla dimensione territoriale prenderà solo uno di questi due mondi. La Lega è abbastanza abile su tutti e due i fronti mentre i cinquestelle sono più abili sul terreno mediatico.
In questo contesto quanto è importante una buona comunicazione politica?
La comunicazione politica è fondamentale di questi tempi. Lo era già nell’America degli anni ’60, all’epoca del celebre confronto televisivo fra Kennedy e Nixon. La percezione di chi ha seguito il dibattito alla radio era differente da chi li ha visti in televisione. Nel primo caso i candidati sembravano allo stesso livello ma chi ha assistito alla diretta ha riscontrato che Kennedy era più brillante e aveva una presenza migliore. Già sessant’anni fa questo tipo di comunicazione, ora superata, faceva la differenza.
Tutto ciò incide sugli esiti di voto?
Una comunicazione politica molto accorta può cambiare il risultato di una tornata elettorale. Lo vediamo anche nei sondaggi: quelli di oggi sono molto diversi rispetto a un anno fa perché nel frattempo c’è stata una battaglia mediatica durata un anno. Chi sa usare meglio i mezzi di comunicazione di massa, chi trova l’argomento vincente, lo spirito giusto e sa come come veicolarlo chiaramente ha più possibilità di riuscita. Una volta si lavorava su un altro piano, i tempi erano più lunghi e la presenza più rarefatta. Adesso è tutto più veloce, più disponibile, siamo immersi 24 ore su 24 nella comunicazione.
Quanto pesa, a suo avviso, il fatto che la comunicazione abbia preso così il sopravvento?
Una volta c’erano le grandi ideologie, quindi non c’era bisogno di fare una grande opera di persuasione sull’elettorato altrui. Essere socialisti, comunisti, democristiani voleva dire essere qualcosa, non si riduceva all’espressione di una preferenza di voto. Adesso noi facciamo una scelta del momento, in relazione a quello che ci preme avere con una determinata votazione.