Formazione e competenze. La ricetta di Franchi (Federmeccanica) per rilanciare l’industria metalmeccanica


Articolo
Giulia Palocci
franchi

Riduzione dei livelli di produzione, peggioramento dei flussi di esportazione e aumento delle ore autorizzate di cassa integrazione. A lanciare l’allarme è Federmeccanica, la federazione dell’industria metalmeccanica italiana aderente a Confindustria che ogni trimestre tira le somme sull’andamento del settore. La 151° indagine congiunturale, presentata nei giorni scorsi a Roma, scatta una fotografia piena di ombre: la produzione è scesa di oltre un punto percentuale rispetto al primo trimestre del 2019 e del 3,1% se confrontata con lo stesso periodo dell’anno precedente. Numeri che fanno preoccupare gli esperti, soprattutto alla luce dell’importante ruolo che l’industria riveste per il sistema economico italiano. Sulle dinamiche produttive ha inciso negativamente anche il peggioramento delle esportazioni che dall’ultima rilevazione risultano diminuite dell’1,2%, complici l’instabilità interna e le vicende che animano lo scacchiere geopolitico mondiale. E pure sul fronte occupazionale le aspettative non sono positive. Oltre alle difficoltà per le imprese di poter contare su personale con competenze tecnologiche avanzate, a distanza di tempo i problemi sono sempre gli stessi. Ne abbiamo parlato con il direttore generale di Federmeccanica Stefano Franchi, che ci ha spiegato le principali criticità del comparto e le possibili soluzioni da adottare.

Direttore, qual è lo stato di salute dell’industria metalmeccanica?

Il termometro rappresentato dalla congiunturale ci dice che il nostro settore non sta benissimo. Diciamo che siamo un po’ febbricitanti perché da troppi trimestri assistiamo al predominare del segno meno davanti alla produzione industriale. Ci sentiamo in una situazione di recessione sostanziale, al di là dei tecnicismi. Quando è apparso finalmente il segno positivo, lo ha fatto davanti a uno zero virgola, che non ha cambiato assolutamente le cose. Oggi la metalmeccanica non sta bene, e questo vuol dire che non sta bene neppure il Paese, perché noi siamo il cuore del sistema produttivo.

Quanto vale il settore per l’economia italiana?

Rappresentiamo il 50% della produzione manifatturiera, l’8% del prodotto interno lordo e il 50 di export dell’intero Paese. Con l’attivo dell’interscambio manifatturiero, manteniamo in terreno positivo la bilancia commerciale. Ciò che ci preoccupa è l’assenza – almeno per il momento – di inversioni di tendenza. E lo dimostrano anche le aspettative delle nostre imprese che, come emerge dall’indagine, non sono buone sia nei giudizi in merito al portfolio ordini che nelle prospettive occupazionali dei prossimi mesi.

Perché i livelli di produzione sono diminuiti dell’1,1% rispetto ai primi mesi del 2019?

Ci sono diversi fattori. Sicuramente non aiuta e ci penalizza quello che sta accadendo nel mondo. Il nostro settore ha una forte vocazione all’export. Partendo dalle cose che si trascinano da più tempo, direi sicuramente la Brexit, la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti e i dazi. Mentre più recentemente, il rallentamento della Germania e la situazione geopolitica in Medio Oriente hanno compromesso le nostre attività al di fuori dei confini nazionali (qui un nostro articolo sull’export dell’Italia). Mettiamo insieme tutte queste cose e viene fuori uno scenario a tinte fosche per chi, come noi, fa dell’esportazione un suo punto di forza.

E la situazione interna?

Anche quella ha certamente influito. Veniamo da un’instabilità che si è protratta per tanto tempo. Per non parlare della domanda interna che non decolla. Sono tutti fattori che hanno portato, anche questo trimestre, a un segno negativo della produzione industriale. Per noi è come una ferita che sanguina sulla metalmeccanica. Bisogna invertire la rotta e puntare tutto sulla manifattura e sull’industria.

Ma anche la formazione ricopre un ruolo importante, giusto?

Noi ci impegniamo molto in questo settore. E dovrebbero farlo anche gli altri. Quando si parla di formazione, istruzione e competenze, si parla di futuro. Anche in quest’ultima congiunturale abbiamo ripetuto una domanda fatta un anno fa. Ieri come oggi il 47% delle nostre aziende ha dichiarato di non essere soddisfatto e ha sottolineato la difficoltà a reperire personale qualificato. Questo è molto grave ed è un rischio che si corre in tutti i comparti.

Qual è la strada da seguire, allora, per invertire la rotta?

Servirebbe un piano straordinario sull’istruzione e sull’apprendimento permanente che coinvolga tutti i soggetti: dal governo fino alle istituzioni locali. Dalle scuole alle università. Tutti dovrebbero impegnarsi di più rispetto a quanto fatto fino a oggi. Negli stessi programmi di governo avrei voluto vedere più spesso le parole istruzione, apprendimento e formazione.

Cosa fa nello specifico Federmeccanica in materia di formazione?

Abbiamo contestato molto, anche attraverso una petizione popolare, l’abbassamento delle ore di alternanza scuola/lavoro per gli istituti tecnici e professionali e la riduzione delle risorse destinate alle scuole. Abbiamo detto a gran voce che queste misure rappresentavano un grave errore. Ci stiamo muovendo in questa direzione: mercoledì scorso, 9 ottobre, abbiamo siglato un importantissimo Protocollo con la regione Toscana, il primo in Italia, che prevede un aumento di duecento ore nei corsi di alternanza e più risorse per gli istituti scolastici. Il rapporto tra scuola e impresa deve essere continuativo. Ci auguriamo che possa partire da qui un effetto domino che si diffonda su tutto il territorio nazionale e che il governo possa tornare a mettere al centro dell’agenda politica l’apprendimento e l’istruzione. Questo è l’unico caso in cui non si può avere qualità senza quantità.

Senza contare le trasformazioni derivanti dalla rivoluzione tecnologica. Cosa fare?

Il cambiamento deve essere semplicemente gestito e guidato, non subito. Le nuove tecnologie hanno bisogno di competenze diverse, porteranno nuovi lavori e ne faranno sicuramente scomparire alcuni. Gestire questo cambiamento vuol dire far sì che si possano trasformare i potenziali problemi in reali opportunità. E’ per questo che noi siamo ossessionati, in senso positivo, dalla formazione perché riteniamo che sia l’unica leva che possa consentire di arrivare dove si vuole arrivare.

Quali sono i vantaggi?

La tecnologia può portare molto da più punti di vista: può migliorare il lavoro nelle fabbriche, può creare lavori più qualificati oppure aiutare in generale il Sistema Paese. L’importante è che questi processi siano gestiti. Penso sia necessario, al di là delle tecnologie abilitanti, la diffusione di quella che io chiamo “Cultura 4.0“. Una cultura di impresa, del lavoro, ossia quel terreno fertile sui cui seminare le nuove tecnologie. Io preferisco parlare di evoluzione industriale, perché al contrario delle rivoluzioni, qui le cose devono avvenire senza strappi. E’ una sfida che si può vincere se si rema tutti dalla stessa parte, e allo stesso ritmo.

Ufficio stampa e Comunicazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Nata a Roma nel 1992, Giulia Palocci si è laureata con il voto di 110 e lode in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’università Luiss Guido Carli con una tesi sul contrasto al finanziamento del terrorismo nei Paesi del Sud-est asiatico.

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