Dagli Stati Uniti all’Italia, passando per la Spagna. L’ondata del populismo ha travolto e sta travolgendo un numero sempre più elevato di Paesi. La rappresentanza è cambiata, come pure la partecipazione politica. I partiti tradizionali hanno perso appeal e, al contrario, guadagnano sempre più consenso nuovi movimenti che mettono al centro dell’agenda politica l’unico interesse legittimo, quello del popolo. Ma da dove nascono? Sono una risposta alla crisi della democrazia liberale? Oppure rappresentano una minaccia a un sistema politico già
scricchiolante? Ne abbiamo parlato con il giornalista Alessio Postiglione che, insieme all’imprenditore Angelo Bruscino, ha provato a rispondere a queste domande nel libro dal titolo “Popolo e populismo. Dalla crisi dell’Europa alla rinascita della democrazia. Come costruire insieme un’Italia migliore“, edito da Cairo, che sarà presentato venerdì 15 novembre presso l’Istituto per la Competitività (I-Com) (insieme a Demopatìa di Luigi Di Gregorio, qui l’intervista). Ne discuteranno con l’autore il professore di Storia delle istituzioni in Europa della Luiss Guido Carli Lorenzo Castellani, il delegato Ferpi Lazio Giuseppe De Lucia, il responsabile di Leggo.it Marco Esposito, il professore di Sociologia della comunicazione della Luiss Guido Carli e partner di Comin & Partners Gianluca Giansante, il filosofo Corrado Ocone, il direttore dell’Agenzia Dire Nico Perrone e il senatore del M5s Vincenzo Presutto.
Postiglione, quali aspetti del populismo toccate nel vostro libro?
Il populismo è emerso negli ultimi anni e si è imposto nelle democrazie occidentali, da Donald Trump negli Stati Uniti al governo giallo-verde in Italia. Questi movimenti o partiti anti-sistema sono stati salutati in modo diverso: da un lato come una minaccia alla democrazia liberale, dall’altro come una rinnovata ventata di partecipazione, visto che negli ultimi anni le varie democrazie occidentali (ma non solo) hanno sofferto una crisi di disaffezione dell’elettorato nei confronti delle istituzioni. Angelo Bruscino e io abbiamo cercato di fare la cronistoria di questa rivoluzione, andando oltre il pregiudizio nei confronti del populismo. Abbiamo provato a capire da dove nasce, se può rappresentare un’innovazione per le democrazie che erano sicuramente stanche e, più in generale, cosa sta succedendo a livello globale.
Quali sono i fattori che hanno portato all’ascesa questi movimenti o partiti?
Sono principalmente economici. E’ risaputo che all’aumentare delle disuguaglianze economiche cresce pure l’interesse dell’elettorato verso partiti più o meno radicali. Un momento fondamentale per il loro successo è quindi senza dubbio la crisi economica che si è scatenata a partire dal 2008. Ma stiamo davvero economicamente peggio rispetto a un tempo? Sicuramente no, perché oggi si sta meglio rispetto al Medioevo! Però, come dimostra l’indice di Gini, che misura il livello di redistribuzione dei redditi nei Paesi, il prodotto interno lordo non è equamente ridistribuito. Così il ceto medio percepisce se stesso come in caduta libera.
E quali sono le conseguenze?
La crisi dei ceti medi alimenta le paure dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. Li spinge a rifiutare l’offerta politica dei partiti mainstream e a scegliere quelli populisti, critici nei confronti della democrazia liberale e della globalizzazione. Le proposte di misure protezionistiche o di mitigazione della globalizzazione a livello generale offrono un rifugio per quelle classi sociali impaurite alle quali i partiti tradizionali avevano promesso mirabolanti risultati economici, ma che invece vedono il loro status e la loro posizione economica in difficoltà. Quello che avviene è una sorta di disaffezionamento.
Ma quindi questi partiti sono una minaccia o un’opportunità?
Possono essere entrambe le cose. E’ indubbio che la democrazia sia in sofferenza: da un lato non riesce a garantire i risultati che i cittadini si attendono e dall’altro non è più in grado di rappresentare tutte le posizioni dell’elettorato. Io uso una metafora: negli anni dell’apogeo della globalizzazione, i primi anni 2000, ci fu il movimento No global secondo cui la globalizzazione avrebbe portato più vinti che vincitori. Dopodiché, superata la prima fase, la sinistra ha aderito al liberalismo e alla globalizzazione, pensando bene che i risultati sarebbero stati positivi per tutti. Non a caso nel libro citiamo il manifesto di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina dal titolo “Il liberismo è di sinistra“.
E non è stato così?
No, la globalizzazione ha vincitori e vinti: i primi si sono sentiti più rappresentati mentre i vinti, ossia il ceto operaio, quello medio-piccolo e borghese che un tempo votava per la sinistra e adesso vota in massa per la Lega, un po’ meno. La globalizzazione è un fenomeno positivo, ma non sono stati indennizzati i perdenti e i suoi benefici non sono stati redistribuiti equamente.
I populisti sono la risposta quindi?
Non si capisce bene cosa vogliano proporre in concreto, ma sicuramente la democrazia liberale sta vivendo una crisi. Ricordiamo che Jean-Marie Le Pen si presentò nel lontano 2002 agli elettori francesi e arrivò al ballottaggio contro Jacques Chirac. Sono vent’anni che i partiti tradizionali ignorano i segnali di un elettorato arrabbiato. Forse troppo impegnati a fare grosse coalizioni per andare avanti e a sostenere le ricette politiche liberali che magari a lungo termine hanno più benefici che costi. Ma come diceva Keynes “nella lunga distanza saremo tutti morti“. Queste esigenze noi le abbiamo oggi e la democrazia liberale non ha saputo, per ora, offrire alternative.
Nel libro si parla anche molto di formazione e della fuga dei cervelli all’estero. Cosa ha a che fare questo con la crisi della democrazia?
Uno dei problemi che vive il ceto medio è il cosiddetto educational mismatch, ossia una discrepanza tra la formazione e la cultura da un lato e quello che poi effettivamente si ottiene dall’altro. La frustrazione del ceto medio lo porta a votare per i populisti. Abbiamo un sistema culturale che produce una disoccupazione di pregio e i giovani sono una grande risorsa che viene sprecata. Ecco perché in Italia va forte il populismo.
Nel libro proponete la cosiddetta economia della conoscenza. Di cosa si tratta?
L’economia della conoscenza è possibile solo se si ha un settore privato che investe molto in ricerca e sviluppo oppure in presenza di una grande politica industriale, anche sul fronte della formazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è una politica coesa: l’Italia non deve dare i soldi a pioggia, ma piuttosto concentrare i fondi nell’ottica di una visione di Paese tecnologicamente avanzato, dove il capitale umano è messo a valore. Gli studenti che noi formiamo, quando vanno a lavorare all’estero, rappresentano anche un trasferimento di risorse dal nostro Paese all’esterno: un grave danno, pure economico, che può essere evitato.