La competitività italiana a ormai più di un anno dallo scoppio della pandemia. Il rapporto Istat


Articolo
Giusy Massaro
istat

L’Istat ha presentato lo scorso 7 aprile il consueto rapporto sulla competitività che, a oltre un anno dall’inizio della pandemia, appare particolarmente interessante leggere. Una prima evidenza che lo studio mette in luce è come, a fronte di un calo delle ore lavorate (-11%), la produttività del lavoro abbia segnato un incremento del 2,7% nel nostro Paese. Si tratta, in realtà, di un effetto che si può plausibilmente spiegare in virtù dell’attivazione di misure di sostegno (quali la cassa integrazione) che hanno consentito alle imprese di rivedere prontamente la propria domanda di lavoro senza grosse ripercussioni.

Soprattutto nel terziario, con un calo complessivo delle ore lavorate dell’11,8%, si è determinato un aumento della produttività oraria particolarmente sostenuto (+4,2%). Ed è proprio in questo comparto che la pandemia ha manifestato gli effetti più pesanti, in particolare nei settori legati al turismo (agenzie di viaggio, trasporto aereo, alloggio e ristorazione, con cadute comprese tra il 40% e il 75%). Uno shock che ha accomunato tutti i Paesi del mondo, con una diminuzione stimata degli arrivi internazionali pari al 74%. Secondo il rapporto Istat, in Italia i dati provvisori relativi al 2020 hanno registrato un calo del 59,2% per gli arrivi totali e del 74,7 per i turisti stranieri, interrompendo la tendenza positiva in atto da diversi anni culminata nel 2019 con un record di presenze nelle strutture ricettive del nostro Paese.

La flessione complessiva del valore aggiunto in Italia è stata determinata per circa tre quarti dal crollo della domanda finale interna (soprattutto nel terziario) e per meno di un quinto dalla caduta della domanda estera, che risulta però preponderante nel caso di alcuni comparti della manifattura più esposti al commercio internazionale: chimica (dove ne rappresenta oltre il 50%), farmaceutica (oltre il 60%) e metallurgia (circa il 55%).

Nel complesso gli effetti della pandemia si sono manifestati soprattutto attraverso un crollo della domanda interna e in una conseguente caduta della liquidità. Le difficoltà di domanda estera, invece, sono state molto meno diffuse. Si comprende, dunque, come la capacità di operare su scala internazionale abbia rappresentato un fattore determinante in termini di possibilità di resistenza e ripresa del sistema. In effetti, dopo il rallentamento del biennio 2018-2019, le esportazioni italiane hanno pesantemente risentito degli effetti economici della pandemia (-9,7%, una caduta comunque meno ampia di quella registrata nel 2009, superiore al 20%), sia verso i mercati europei che verso quelli extra Ue. In particolare, ne hanno risentito macchinari (-12,6%), tessile abbigliamento e pelli (-19,5%) e mezzi di trasporto (-11,6%). Sono invece aumentate, secondo quanto riportato nel rapporto Istat, le esportazioni dei settori legati al contrasto della pandemia o meno coinvolti dai provvedimenti di lockdown, quali farmaceutica e agroalimentare.

Tuttavia, l’Italia non sembra aver perso competitività sui mercati esteri, con quote sulle importazioni mondiali sostanzialmente invariate. Questo è dovuto alla capacità di competere con successo su prezzi e qualità dei beni, ma soprattutto al fatto che i prodotti di punta del modello di specializzazione italiano non hanno perso peso sulle importazioni mondiali, anzi in certi casi ne hanno acquistato.

Va detto, però, che a fare la differenza è soprattutto l’internazionalizzazione in forma più complessa (ad esempio, multinazionali a controllo estero) rispetto alla semplice attività di esportazione. Ma non solo. Impatto e capacità di reazione dipendono anche da elementi strutturali, orientamenti strategici e grado di competitività raggiunto in passato.

Dall’analisi svolta dall’Istat, sebbene una porzione significativa del sistema produttivo nazionale sia a “rischio strutturale” – si tratta del 45% delle unità con almeno tre addetti, rappresentative del 20,6% dell’occupazione e del 6,9 del valore aggiunto complessivi – l’11% delle imprese, che occupa quasi la metà della forza lavoro e produce circa il 70% del valore aggiunto, risulta invece “solido” e sarebbe interessato solo in misura marginale dalla crisi: in pratica si parla di quelle imprese che utilizzano un capitale umano mediamente più qualificato e fanno un uso più intenso di tecnologie digitali.

Un aspetto su cui il rapporto Istat pone l’accento è, inoltre, come la pandemia abbia accelerato il processo di trasformazione digitale delle imprese. L’esigenza di distanziamento sociale e il progressivo affermarsi dello smart working hanno favorito gli investimenti in beni immateriali quali server cloud, postazioni di lavoro virtuali (raddoppiati in soli 8 mesi) e software per la gestione condivisa di progetti. Per non dimenticare, poi, il maggiore ricorso all’e-commerce.

Infine, novità di quest’anno, l’Istat ha introdotto un nuovo capitolo dedicato all’eterogeneità degli effetti prodotti dalla crisi sul territorio. Delle 6 regioni il cui tessuto produttivo risulta ad alto rischio combinato (ossia riferito sia alle imprese che agli addetti), 5 appartengono al Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna) e una al Centro (Umbria), mentre le 6 classificabili a rischio basso si trovano tutte nell’Italia settentrionale (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Friuli V.G. e la Provincia autonoma di Trento). Ciononostante, emergono elementi di vulnerabilità anche in alcune zone del Centro e del Nord, nelle quali più determinanti sono i settori maggiormente colpiti dalla pandemia, quali tessile e turismo. A fare la differenza è anche la presenza di un modello di specializzazione maggiormente diversificato e con attività a più elevato contenuto di tecnologia e innovazione, che caratterizza sicuramente le regioni settentrionali.

In conclusione, si può dire che in un anno caratterizzato da enormi difficoltà in quasi tutti i comparti produttivi, la performance di competitività certificata nel rapporto Istat – che fotografa gli andamenti di produzione industriale, fatturato estero e grado di utilizzo degli impianti – evidenzia come durante la fase di lockdown i settori che l’anno precedente avevano registrato dinamiche migliori (ad esempio alimentari, bevande, elettronica) abbiano manifestato una parziale tenuta, mentre quelli già meno performanti (ad esempio tessile, abbigliamento, pelli e automotive) hanno continuato a perdere terreno. Una tendenza che si è invertita nella seconda metà dell’anno, grazie alle riaperture delle attività e al recupero della domanda estera, che ha favorito in particolare il comparto dei mezzi di trasporto.

Il settore del turismo rimane quello più duramente colpito. Al momento, le imprese sembrano aver reagito con un ridimensionamento dell’attività, o cambiando radicalmente tipo di attività, o riducendo il numero di dipendenti, o ancora modificando la struttura societaria. Circa una impresa su quattro, invece, non è ancora riuscita a pianificare strategie di reazione alla crisi, mentre altre hanno invece diversificato l’attività, fornendo nuovi servizi o creando partnership con altre imprese, nazionali o estere. Anche le aspettative degli operatori del settore circa le prospettive future sono tutt’altro che rosee. Eppure, la capacità di ripresa del settore turistico – che nel 2018 rappresentava il 15% del totale delle imprese, il 12,8 degli addetti e il 5,8 del fatturato – appare cruciale. A tal fine, il Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano ha stanziato 8 miliardi di euro proprio per questo comparto. Auspichiamo di vederne presto gli effetti.

Research Fellow dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata all’Università Commerciale L. Bocconi in Economia, con una tesi sperimentale sull’innovazione e le determinanti della sopravvivenza delle imprese nel settore delle telecomunicazioni.

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