Medicina di genere, le sfide per una sanità equa e universale


Approfondimento
Maria Vittoria Di Sangro
genere

Nell’anno di presidenza italiana del G20 il Women20 ha trattato insieme alle delegate di 19 Paesi tutti i temi dell’empowerment femminile. E per la prima volta si è parlato anche di medicina di genere in tutti i suoi aspetti. A tal proposito, un approccio che tenga conto delle differenze di genere nella pratica clinica consente di promuovere l’appropriatezza e la personalizzazione delle cure, di rispondere alle sfide sanitarie del futuro e di rimanere al passo con le esigenze di salute dei cittadini, che evolvono a ritmo crescente.

Uomini e donne non sono uguali in medicina. Si ammalano in modo diverso, di malattie differenti, non hanno gli stessi sintomi e rispondono in modo dissimile alle terapie. Per molto tempo questa diversità non è stata riconosciuta dai ricercatori e dai medici, tanto che la medicina è stata costruita su un modello unico e androcentrico. Oggi tuttavia abbiamo capito che riconoscere e valorizzare le differenze di genere permette di fornire cure più appropriate a tutti, sia maschi che femmine. In occasione del Women20, il forum del G20 dedicato all’uguaglianza di genere, è stata istituita la commissione “Equity in Health” proprio per colmare il divario tra persone e politica con azioni mirate ad aumentare la diffusione e gli investimenti in strategie efficaci per affrontare le disuguaglianze di genere nei sistemi sanitari.

L’esigenza di questo nuovo punto di vista, da includere in tutte le specialità mediche, nasce dalla crescente consapevolezza delle differenze associate al genere, con il fine ultimo di garantire a ogni persona la migliore cura, rafforzando il concetto di “centralità del paziente” e di personalizzazione delle cure. Da questo punto di vista, la medicina di genere studia l’impatto del genere tenendo conto di variabili non solo biologiche ma anche ambientali, culturali e socio-economiche, con l’obiettivo di comprendere i meccanismi attraverso i quali queste differenze agiscono sullo stato di salute e sullo sviluppo delle patologie.

Questi aspetti sono emersi in tutta la loro importanza anche durante la pandemia da Covid-19. Secondo le statistiche, l’infezione da SARS-CoV-2 produce effetti diversi negli uomini e nelle donne. Per spiegare questo fenomeno sono state prese in considerazione differenze di tipo ormonale, genetico, relative all’efficacia della risposta immunitaria e agli stili di vita.

Si tratta di un cambio di prospettiva che tiene in considerazione il fatto che, come un bambino non è un piccolo adulto e l’anziano ha caratteristiche cliniche e bisogni specifici, l’attenzione all’universo femminile non va circoscritta alle patologie considerate esclusivamente femminili che colpiscono mammella, utero e ovaie. Ma deve essere prevista e sostenuta ovunque, in ogni ambito e settore, poiché le differenze tra donna e uomo trovano espressione nei meccanismi che regolano la fisiologia, la fisiopatologia, l’insorgenza e le caratteristiche dei sintomi, le risposte ai trattamenti e la loro gestione. Nello stesso tempo le differenze, in particolare socio-economiche e culturali, governano i comportamenti a rischio e protettivi e vanno tenute in considerazione anche in ambito preventivo.

Ma quali sono, nel dettaglio, queste differenze? Secondo i dati disponibili, le donne si ammalano di più, consumano più farmaci e sono più soggette a reazioni avverse. Inoltre, sono “svantaggiate” socialmente rispetto agli uomini (si pensi, ad esempio, alle violenze fisiche e psicologiche, alla maggiore disoccupazione e alle difficoltà economiche). Ma c’è di più. Per le stesse patologie, possono presentare, rispetto agli uomini, segni e sintomi diversi (come per il caso dell’infarto del miocardio) o diverse localizzazioni (neoplasie del colon, melanoma). E ancora, possiedono un sistema immunitario in grado di attivare risposte più efficaci rispetto all’altro sesso, e sono quindi più resistenti alle infezioni, ma nello stesso tempo mostrano una maggiore suscettibilità alle malattie autoimmuni. D’altro canto gli uomini hanno un’aspettativa di vita alla nascita inferiore e una maggiore probabilità di morire di cancro, di incidenti stradali e di altre importanti cause, incluso il suicidio. Gli uomini, infatti, sono più propensi delle donne a fumare, a bere alcolici, ad avere una cattiva alimentazione e a non accedere ai servizi sociosanitari.

Alcune patologie considerate classicamente femminili, inoltre, molto spesso non sono riconosciute nel maschio e quindi sono sottostimate. Ne sono un esempio l’osteoporosi, che colpisce prevalentemente le donne, ma è una minaccia anche per gli uomini, e la depressione, che sembra essere meno frequente negli uomini probabilmente perché le statistiche non tengono conto del fatto che questi ultimi tendono a ritardare il ricorso al medico e alle prestazioni sanitarie. Inoltre, il genere influenza in maniera significativa sia il numero che la tipologia delle comorbilità. Sotto questo profilo, indipendentemente dall’età, le donne hanno contemporaneamente un numero di malattie maggiore rispetto agli uomini, ma mostrano differenze in termini di tipologia.

La risposta alle terapie, in ambito di differenze di genere, riveste un’importanza rilevante. Alcuni parametri fisiologici (altezza, peso, percentuale di massa magra e grassa, quantità di acqua, pH gastrico) sono differenti nell’uomo e nella donna e condizionano l’assorbimento dei farmaci, il loro meccanismo di azione e la loro successiva eliminazione. Nonostante queste variabili, gli effetti dei farmaci sono stati studiati prevalentemente su soggetti di sesso maschile. Il dosaggio nella sperimentazione clinica è stato definito su un uomo del peso di 70 chili. Oltre ai fattori sopra citati, età ed etnia sono ulteriori variabili rilevanti nella risposta alla terapia. Analogo discorso può valere per le prestazioni dei dispositivi medici e gli effetti del loro utilizzo.

È importante sottolineare che considerare la medicina di genere tra le priorità strategiche eviterebbe anche molte occasioni di discriminazione verso gli uomini riguardo alcune patologie. Ne è un esempio il fatto che ogni anno in Italia vengano diagnosticati più di mille nuovi tumori alla mammella in uomini. Per loro la malattia ha una prognosi peggiore che per le donne, sulle quali, essendo assai più frequente, è stata oggetto di studi approfonditi negli anni. Inoltre gli uomini spesso non sono a conoscenza della possibilità di ammalarsi alla ghiandola mammaria e, per questo motivo, di solito non si sottopongono alla mammografia e non sono invitati agli screening. Che la gran parte degli studi avvenga sulla popolazione più colpita è del tutto normale, ma è importante prendere consapevolezza anche delle altre variabili.

Da dove possiamo iniziare? Secondo il comunicato ufficiale dell’Engagement Group Women20, il primo campo in cui sarà necessario introdurre modelli innovativi sarà prioritariamente la ricerca clinica. Secondo il terzo cardine della commissione “Equity in Health“, è fondamentale “sviluppare e finanziare piani strategici multidisciplinari sulla medicina di genere” innanzitutto “investendo in una ricerca che consideri le differenze biologiche e di genere unitamente ai principali fattori di rischio, ai biomarcatori, ai meccanismi di funzionamento e di esito delle malattie, al metabolismo e alla risposta ai farmaci“.

D’altronde, modelli innovativi che riguardano l’approccio clinico, gli indicatori di esito e di cura condivisi con i pazienti, l’utilizzo di strumenti digitali per la conoscenza e l’integrazione del vissuto del/della paziente con i dati clinici offrono la possibilità di contribuire allo sviluppo di sistemi sanitari più efficaci ed efficienti. La possibilità di applicare tali aspetti alla pratica clinica presuppone la validazione degli stessi modelli attraverso progetti di ricerca mirata che tengano in considerazione il genere. A tal fine, l’utilizzo di indicatori che considerino le differenze di genere in ogni ambito della vita dei pazienti e la valutazione di come questi s’intersechino tra loro e influenzino la diagnosi, la prognosi e la risposta ai farmaci e ai dispositivi medici, deve essere parte integrante della ricerca pre-clinica propedeutica allo sviluppo della medicina di precisione, sempre più personalizzata, che tenga in considerazione le varie differenze tra uomo e donna.

Quali ostacoli ci sono? La visione androcentrica che ha caratterizzato la medicina nel corso del tempo è un retaggio che sarà difficile scardinare, soprattutto finché il modello organizzativo del nostro Servizio sanitario nazionale non rispecchierà questo cambiamento di prospettiva. Il mancato riconoscimento del ruolo delle donne nell’ambito sanitario è un freno al raggiungimento della piena copertura universale (obiettivo dichiarato dell’Organizzazione mondiale della sanità) in quanto l’assenza o la forte carenza delle donne ai vertici delle varie istituzioni e organismi rappresentativi del mondo sanitario produce, a cascata, la loro assenza ai tavoli decisionali. Questo comporta, a seguire, una vera mancanza di presa in carico dei problemi del mondo sanitario femminile. Un’asimmetria, in definitiva, che influisce sulla programmazione e sull’organizzazione dei servizi sanitari, che oggi non riescono a rispondere in pieno ai bisogni della cittadinanza, in termini di cura, prevenzione e riabilitazione soprattutto delle patologie croniche.

Secondo le stime dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), la disparità di salario tra uomo e donna a livello globale è ancora dell’11% nel settore sanitario. Nella maggior parte dei casi questa differenza non è giustificata da maggiori qualifiche o migliore grado di istruzione da parte degli uomini. Nel comparto sanità, le donne generalmente svolgono in numero maggiore lavori meno prestigiosi e meno pagati, e in quota maggiore lavorano part-time.

Anche in Italia la percentuale più alta di personale a tempo parziale è rappresentata dalle donne, sia come ricercatrici sia in altri ruoli. Ben il 67% delle risorse umane è costituto da donne. Ma, secondo il Rapporto Oasi 2019 dell’Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario italiano curato da Cergas e Bocconi, sebbene le donne complessivamente rappresentino il 44% del totale di medici e odontoiatri, solo il 32% dei direttori di struttura semplice e il 16% dei direttori di struttura complessa è donna. Nello specifico in base ai dati diffusi dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, le donne medico presidenti o vicepresidenti dei 106 ordini italiani sono solo 20. Dei 15 membri del Comitato centrale della Commissione Albo Medici due sono donne e, tra i 9 componenti della Commissione Albo Odontoiatri, c’è solo una presenza femminile. E ancora: dai numeri forniti dalla Federazione nazionale Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (TSRM e PSTRP) emerge che, sebbene il 65% degli iscritti sia rappresentato da donne, soltanto in 11, pari al 18%, ricoprono il ruolo di presidenti dei 61 Ordini TSRM e PSTRP, percentuale che sale al 42% se si analizzano i numeri relativi ai presidenti delle 19 Commissioni di albo nazionali.

Passando agli infermieri, il 76% degli iscritti all’albo in Italia è donna e la percentuale arriva al 98% se si estrapolano i dati relativi a quelli pediatrici. Ma se analizziamo i dati su quelli che ricoprono ruoli dirigenziali, la quota supera di poco il 50%.

Questa dinamica, ampiamente discussa, è conosciuta come glass-ceiling effect. Si tratta di un fenomeno socio-economico noto come “soffitto di cristallo” che consiste nell’impossibilità per le donne di raggiungere posizioni di vertice nel proprio ambito lavorativo. Il problema della segregazione verticale determina la concentrazione di un solo genere in posizioni di comando nella gerarchia lavorativa e crea disparità di trattamento. Molti studi accademici a livello internazionale dimostrano come, soprattutto in alcuni Paesi, siano ancora gli uomini ad avere maggiore possibilità di accesso alle posizioni apicali, con conseguente aumento di remunerazione e prestigio, mentre le donne risultano prevalentemente impiegate in ruoli inferiori e con minore possibilità di carriera.

A questo proposito, ogni anno The Economist elabora un indicatore che esprime il grado di intensità del fenomeno nella maggior parte dei Paesi del mondo, appunto, il “glass-ceiling index”. La costruzione dell’indice si basa sulla performance legata a dieci sotto-indicatori, tra cui livello di istruzione, partecipazione al mercato del lavoro, retribuzione e percentuale di lavoratori in posizioni apicali. Per il 2020, l’Italia ha realizzato un punteggio di 64 su 100 (dove il punteggio massimo riflette un’uguaglianza assoluta tra generi), posizionandosi comunque al di sopra della media dei Paesi Oecd (59,6).
Come possiamo vedere nel grafico, gli Stati europei che hanno raggiunto punteggi maggiori sono i Paesi scandinavi e la Francia, tutti superiori al 70. Il trend italiano degli ultimi anni è comunque in crescita, ed è un segnale di miglioramento che non possiamo certo ignorare. Ma questo cambiamento deve costituire un primo passo e un incoraggiamento, non un traguardo.

Fonte: Statista

Una priorità sarà certamente inserire nella ricerca clinica e pre-clinica modelli innovativi che tengano conto delle differenze di genere (che siano biologiche, sociali o di qualsiasi altra natura) ma non è di certo sufficiente per cambiare dinamiche profondamente radicate. Nonostante il nostro Paese e la comunità internazionale si stiano muovendo nella giusta direzione per costruire una sanità globale sempre più equa, la strada da percorrere è ancora lunga e non priva di ostacoli. Primo tra questi, la mancanza di diffusione della cultura di genere.

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