Dalla scelta di un sistema di voto di tipo maggioritario al tramonto della militanza e della formazione politica, passando per la diffusione, sempre maggiore, di un elettorato fluttuante (floating voters): ecco com’è cominciato il
dominio della comunicazione sulla politica. In un contesto in cui i politici devono riconquistare gli elettori quasi in ogni tornata elettorale, la comunicazione diventa sempre più rilevante. Ne abbiamo parlato con Alberto Di Majo, capo del servizio politico del quotidiano Il Tempo e autore di alcuni capitoli del libro dal titolo “Comunicazione integrata e reputation management“, curato da Gianluca Comin ed edito da Luiss University Press.
Quali sono, secondo lei, le principali tendenze che la digitalizzazione e i social hanno introdotto nella comunicazione politica?
Il web ha eliminato la mediazione e cambiato profondamente la comunicazione politica. Da un lato ha distrutto il professionismo e il meccanismo della rappresentanza così come noi lo conosciamo mentre dall’altro ha allargato i confini della partecipazione. Siamo di fronte alla costruzione di partiti condivisi, in cui politiche e candidature sono decise con il contributo attivo degli elettori.
Si può parlare, quindi, di un ritorno del cittadino al centro del processo mediatico a suo avviso?
Sì, non c’è dubbio. Viviamo in un contesto in cui non esiste più l’economia della proprietà, ma esiste la sharing economy. Abbiamo capito che la condivisione dà la possibilità di fare più cose rispetto alla proprietà. In un quadro del genere non abbiamo più bisogno del politico che ci dica cosa dobbiamo fare. L’elettore decide le sue priorità per poi affidare l’intera agenda a chi ritiene che lo possa rappresentare.
La comunicazione politica è sempre più simile a una tradizionale azione di marketing?
Assolutamente. Si parla di marketing politico ormai da decenni, ma io credo che in questa specifica fase possiamo più che altro parlare di marketing della condivisione. Quando la Coca Cola ha lanciato sul mercato le bottigliette con scritto un nome o addirittura un messaggio, ha segnato un importante cambiamento: il consumatore non era più semplicemente considerato come tale, ma partecipava alla definizione del prodotto stesso. Le aziende già da alcuni anni danno la possibilità al consumer di diventare prosumer, ossia un po’ consumatore, un po’ produttore.
E cosa avviene in politica?
Succede la stessa cosa. Il primo a intravedere questa possibilità in Italia è stato Gianroberto Casaleggio. Non a caso il Movimento 5 Stelle è di fatto il primo partito condiviso, costruito dal basso, dalle persone e dagli attivisti che stimavano e seguivano le battaglie civili di Beppe Grillo.
C’entra qualcosa, secondo lei, la riscoperta dell’emotività in politica?
Gli studi che sono stati fatti in questi ultimi anni dicono sostanzialmente che la decisione emotiva arriva sette secondi prima di quella razionale. L’emozione è il vero centro decisionale. Una volta chiesero a Harper Reed, capo dell’ufficio social di Barack Obama nella campagna per la rielezione del 2012, qual era stato il segreto dell’ex presidente americano. Rispose: “People“. Semplicemente la gente. Il fatto di poter riuscire a far partecipare le persone e a emozionarle.
Qual è il rapporto dei politici con i media?
Sicuramente è cambiato, anche per il fatto che oggi i giornali non li legge quasi più nessuno. Un vero e proprio paradosso dal momento che tutti gli altri mezzi di comunicazione, la televisione in primis, prendono la loro agenda proprio dai “giornaloni della mattina”. In questo modo siamo portati a pensare che lo strapotere sia delle tv ed è per questo che i politici, in Italia, puntano sul piccolo schermo.
Invece su cosa dovrebbero concentrarsi secondo lei?
Un politico che sottovaluta il web è destinato a perdere. Donald Trump, prima di trionfare nelle urne, aveva già vinto le elezioni su Twitter: bastava guardare i flussi dei suoi follower. A parte alcune eccezioni, i nostri politici usano molto male, molto poco e soltanto nei periodi elettorali i canali digitali. Al contrario, la comunicazione online è una cosa che va seguita continuamente.
Quanto sono importanti in questo senso i professionisti della comunicazione?
Sono fondamentali. Uno dei più grandi spin doctor di Ronald Reagan, Michael Deaver, chiamato anche “il grande comunicatore”, diceva sempre che nell’era della televisione una cosa non è accaduta se la gente non vede quello che vedi tu. Una capacità che richiede senza dubbio la presenza di veri professionisti.
In questi giorni di emergenza, invece, come stanno comunicando i nostri politici?
Secondo me stanno comunicando bene. Giuseppe Conte è molto attivo e sta dando l’idea di aver fatto tutto quello che si poteva fare. Certo, io sono convinto che bisognerebbe spiegare ripetutamente che non siamo di fronte a un cataclisma. Si tratta di un’influenza da non sottovalutare ma che abbiamo la possibilità di fronteggiare. In generale, mi sono sembrati molto attenti e soprattutto sinceri. La comunicazione deve essere semplice e ancorata alla realtà.
Qui la nostra intervista a Gianluca Giansante, che ha contribuito al manuale “Comunicazione integrata e reputation management“.