Ecco cosa succede al mercato del petrolio (e perché)


Articolo
Michele Masulli
mercato

Ogni fase di crisi mette di fronte all’imprevisto, palesa nuove incognite e pone sfide inedite. L’emergenza Covid-19 non è da meno e negli ultimi giorni ha svelato quello che per l’opinione pubblica non può essere che un paradosso, una bizzarria che sfida i manuali di microeconomia e il senso comune: i prezzi sul mercato petrolio si sono talmente abbassati da diventare negativi. Nello specifico, nella giornata di lunedì i future sul WTI con scadenza a maggio venivano scambiati a -37,63 dollari. Insomma, per esemplificare, se a Cushing, Oklahoma, snodo fondamentale della rete di gasdotti USA e punto di consegna del WTI, avessimo avuto alcuni camion cisterna pronti a accumulare a maggio 1.000 barili di petrolio (159mila litri, ossia la quantità prevista dai contratti a termine) avremmo potuto ricavarne un bel gruzzolo (nei fatti poi non è proprio così perché la vendita non riguarda mai un singolo contratto).

Alla possibilità di prezzi negativi avevamo già accennato, in relazione a mercati circoscritti e “fisici” (non finanziari), spinti dal calo della domanda e dai costi elevati di stoccaggio. Il CME Group, che gestisce il mercato di scambio di future e opzioni su WTI, in ogni caso aveva comunicato agli operatori di essere pronto all’evenienza di prezzi negativi, tramite il ricorso al cosiddetto modello Bachelier, un modello di matematica finanziaria ideato da Louis Bachelier a inizio del XX secolo in grado di prezzare opzioni con sottostante negativo, a differenza dei metodi oggi più diffusi. Tuttavia, da qui a riguardare il prezzo benchmark del mercato del petrolio per gli Stati Uniti il passo è più lungo.

Come per tutti i fenomeni complessi, le cause sono molteplici e tengono insieme meccanismi finanziari e fondamentali del mercato: si va dallo stallo dell’attività economica alle difficoltà tecnologiche e logistiche, dalle speculazioni finanziarie alle tensioni geopolitiche. Sicuramente il funzionamento dei mercati del petrolio, unito al calo della domanda e alla scarsa capacità di stoccaggio (importante minaccia che rischia di toccare presto altre aree del mondo oltre agli Stati Uniti), ha rivestito il ruolo principale nel crollo di lunedì, maggiore del 300%. I future con consegna a maggio, infatti, scadevano martedì. I traders, avendo di fronte elevati costi di immagazzinamento e domanda bassissima (le raffinerie hanno limitato la trasformazione del greggio visto il blocco di trasporti e di parte importante dell’industria), erano disposti a pagare pur di liberarsi dei quantitativi acquistati.

Alla base dei risultati di mercato di lunedì ci sono fattori di questo tipo. Così come, tra le storture di mercato, è da citare lo US Oil Fund (USO), un Etf sul petrolio da 3,8 miliardi di dollari, il più grande al mondo, che controlla circa un quarto delle posizioni aperte sul WTI. Non un oscuro hedge fund, ma un fondo partecipato da una miriade di famiglie americane, desiderose di far fruttare i propri risparmi grazie alla volatilità delle quotazioni del petrolio. Per il suo peso, oggi USO, con le operazioni di ristrutturazione del portafoglio in corso, è in grado di esercitare una funzione ragguardevole di condizionamento del mercato. Pertanto, i prezzi per i mesi a venire riflettono meglio l’opinione del mercato sul valore attuale del greggio.

Per il mese di giugno, nel momento in cui si scrive, i future sul WTI vengono scambiati a 14 dollari, con un calo del 40% in due giorni, ma comunque in terreno positivo e in ripresa, indice probabilmente di fiducia nel taglio dell’output determinato dai Paesi produttori e di una timida ripartenza dell’attività economica, con l’allentamento delle misure di lockdown. I prezzi per i mesi successivi crescono gradualmente. Si tratta di una situazione di mercato, quando i prezzi futuri sono superiori ai prezzi spot, chiamata “contango”, o “supercontango” quando il differenziale è particolarmente elevato – “Last (con)tango in Texas” hanno titolato in diversi, tenendo insieme Marlon Brando e i barili di petrolio.

Ciononostante, per il Brent, utilizzato come benchmark in gran parte del mondo e i cui contratti per maggio sono già scaduti, non si è registrato un calo minimamente paragonabile al WTI. Sono dati che portano a riflettere sullo stato dell’industria dell’energia negli Stati Uniti, che in poco più di un decennio, grazie agli investimenti nello shale, sono passati da essere un grande importatore di idrocarburi a uno dei maggiori produttori al mondo, potendo vantare una considerevole capacità produttiva che oggi non trova domanda. Si stima che la capitalizzazione del comparto statunitense dell’energia valga oggi 700 miliardi di dollari, circa la metà di Microsoft, il 57% di Apple, il 59% di Amazon e l’80% di Google, facendone il più piccolo degli undici settori dell’indice S&P 1500, con un valore pari orientativamente a un decimo del settore tecnologia, un sesto dell’health care e un quarto del comparto finanziario.

Tuttavia, non è solo il prezzo del petrolio a scendere. Lo stesso vale, a ritmi inferiori, per altre materie prime. Sono evidenti rischi deflazionistici nel momento in cui l’offerta non incontra adeguati sbocchi, così come le minacce di deterioramento per la capacità produttiva: più lungo sarà il congelamento dell’economia, più concreti i pericoli di danni profondi e permanenti, come autorevolmente spiegato da Mario Draghi dalle colonne dal Financial Times. Per questo sono necessarie da parte degli Stati risposte straordinarie e coordinate.

Ricopre attualmente il ruolo di Direttore dell’area Energia presso l’Istituto per la Competitività (I-Com), dove è stato Research Fellow a partire dal 2017. Laureato in Economia e politica economica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, successivamente ha conseguito un master in “Export management e sviluppo di progetti internazionali” presso la Business School del Sole24Ore. Attualmente è dottorando di Economia applicata presso il Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa principalmente di scenari energetici e politiche di sviluppo sostenibile, oltre che di politiche industriali e internazionalizzazione di impresa.

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